E se parlassimo di felicità? Quale argomento più allettante per un’assemblea studentesca. Questo il ragionamento fatto dagli studenti del Liceo Statale E. Majorana di San Giovanni La Punta, che hanno svolto la loro assemblea d’istituto del mese di novembre presso il cine-teatro Metropolitan di Catania, dove hanno assistito all’opera teatrale Anima mundi e al cortometraggio Andrei bene per il cinema muto, prodotti dall’associazione culturale Neon e presentati all’ultima edizione di Taoarte.
Certo, al primo impatto, accolti da attori seminudi issati sulle poltroncine del teatro e percorsi da fremiti e movimenti sinuosi ma sofferenti, questa felicità non si coglieva; e non si percepiva, la felicità, neanche con le prime scene, fotogrammi di situazioni insolite, ballerine claudicanti, corpi offesi da limiti fisici o appesantiti dagli anni. Eppure, man mano che le scene si snodavano in un racconto atipico, senza apparente svolgimento logico (quello che si insegna e si impara a scuola, dove le regole, la norma, il canone, la fanno da padroni), cresceva la magia, la poesia, il rapimento, la cui cartina al tornasole era il telefonino conservato in tasca, perché gli occhi e le orecchie erano presi da altro, da qualcosa che stava avvenendo attorno e, pian piano, dentro gli spettatori, sempre più frastornati ma, al tempo stesso, più coinvolti.
Le immagini, i suoni, le parole, apparentemente in libertà tessevano una trama di fili che finivano per annodare gli astanti, che smettevano di interrogarsi sul significato di quello a cui stavano assistendo e vedevano con gli occhi, sentivano con le orecchie, provavano col cuore, cogliendo, progressivamente, il materializzarsi dell’armonia. Eccola, la parola chiave, l’illuminazione: sulla scena si stava realizzando un’armonia che finiva per avvolgere tutti i presenti; armonia di suoni, sapientemente modulati; armonia di voci, alte, basse, rauche, stentoree, stentate, flebili; armonia di corpi, giovani, maturi, atletici, offesi, magri, robusti.
Ed ecco, allora, chiarirsi anche il senso dell’opera Anima mundi, realtà animata unitaria, respiro di un universo che si esprime nella molteplicità, nella differenziazione funzionale, che, tuttavia, come ci suggerisce l’etimologia della parola, tende all’unità, uni-verso, dove ogni creatura è parte di questo tessuto universale e rappresenta un unicum irripetibile. Sì, a questo punto, si cominciava a capire. Ma che c’entra tutto questo con la felicità?
Anima mundi è la terza opera di una trilogia intitolata Trittico della felicità umana; le prime due opere sono, rispettivamente, Ciatu e Invasioni. Fonti ispiratrici sono l’opera di J. Hillman, L’anima del mondo ed il pensiero del cuore, la filosofia di Giordano Bruno e quella di Baruch Spinoza.
Ciatu è il respiro, lo pneuma, l’anima che vivifica il corpo, questa meravigliosa unione dello spirito con la materia, che si anima, appunto; il Deus sive natura è la scintilla del divino presente in ogni aspetto della natura, in ogni corpo, in ogni essere, che ha la dignità che gli deriva dal seme divino. E, dunque, prende corpo una realtà, una visione del mondo dove non valgono più norme e canoni, che finiscono per omologare; dove, invece, ogni creatura, nella sua irripetibile singolarità, si sente parte della complessità del tutto, Anima mundi, «ciò che è in me è in te e ciò che è in te è in me… niente ci fa», per citare il poetico testo scritto dal maestro Piero Ristagno, magistralmente diretto e interpretato dalla regista Monica Felloni.
Un universo animato, dunque, vitale, palpitante, ricco e bisognoso al tempo stesso, all’interno del quale ogni essere sente l’urgente bisogno di esprimere se stesso, di comunicare, di entrare in comunione con gli altri esseri e con il tutto, nel modo che sa, nel modo in cui può, magari zoppicando, come le ballerine claudicanti che calcano le scene… «niente ci fa!».
Ed eccola l’altra parola chiave: la comunicazione, poeticamente espressa nel corto Andrei bene per il cinema muto, dove un giovane tetraplegico, Danilo, che comunica solo con gli occhi, si incontra in riva al mare con Maria Stella, che riesce a leggere lo sguardo di Danilo dando voce ai suoi pensieri, e con Felice, uno scultore cieco. Le nostre limitanti facoltà razionali si limitano a cogliere il paradosso: come farà uno scultore cieco a rappresentare il volto di un giovane che comunica solo con gli occhi?
La risposta nelle poetiche immagini del corto, in questi due corpi che, sfiorandosi, tastandosi, annusandosi, abbracciandosi, entrano in comunione, si conoscono e si riconoscono a tal punto che Felice realizza un mezzobusto in marmo di Danilo dalla sconvolgente somiglianza. Avremmo potuto banalmente dire che dei ragazzi liceali hanno dedicato la loro assemblea d’Istituto al tema dell’inclusione attraverso forme di arte innovative, ma non ci siamo azzardati a farlo. Includere chi? Che cosa è normale? Diverso… da chi?
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