All’inizio del 2017 credo sia doveroso ricordare che l’anno appena trascorso ha visto il maggior numero di persone, provenienti dalle regioni subsahariane, lasciare le loro terre, le loro case, le loro famiglie a causa di guerre, persecuzioni, violenze e, non ultima, la miseria, per conquistare una più dignitosa condizione di vita. Ormai da oltre 25 anni ci confrontiamo con la tragedia dell’immigrazione. Sono persone che, dopo aver lasciato la propria terra, viaggiano in media per due anni, attraversando il deserto dove vengono seviziate, derubate, vendute, torturate. Molti di loro nel deserto ci lasciano anche la vita. Poi, finalmente, arrivano in Libia, l’ultimo Stato in cui transitano prima di arrivare all’agognata Europa, la terra promessa.
La Libia è il vero inferno. È qui che subiscono le peggiori violenze, soprattutto le donne, trattate come esseri inferiori. Da qui, dopo aver viaggiato talvolta anche qualche anno, riescono ad imbarcarsi su mezzi fatiscenti, ultimamente su gommoni. Questi ultimi sono imbarcazioni senza chiglia, monotubolari e che alla prima onda affondano. Su ogni gommone i trafficanti caricano fino a 150 persone, stipate come sardine, e costrette a sollevare continuamente le taniche di benzina che, cadendo copiosamente per terra, si unisce all’acqua creando una miscela devastante che inzuppa i vestiti e provoca gravi ustioni chimiche da contatto spesso mortali. Questa patologia, da me definita «malattia dei gommoni», colpisce prevalentemente le donne che, come sempre, sono coloro che pagano di più. Ciò accade poiché gli uomini, salendo sui gommoni, siedono sul tubolare facendo sedere, invece, le donne per terra con i loro bambini in braccio.
All’arrivo a Lampedusa, dopo essere stati recuperati dalle forze dell’ordine (Guardia costiera, Guardia di finanza, Marina militare), i migranti trovano noi sanitari, insieme ai volontari, pronti ad accoglierli in quel purtroppo famoso molo Favaloro. Molo della sofferenza ma anche della speranza. Arrivano terrorizzati, con lo sguardo vuoto. Anzitutto, cerchiamo di accostarci a queste povere creature con un gesto di sincera umanità, una carezza, un sorriso, una pacca sulla spalla. Basta poco. A noi non costa niente e per loro è già tanto. Non pretendono nulla, chiedono soltanto di essere trattati come esseri umani. Noi siamo orgogliosi di farlo e sempre abbiamo offerto umanità, non muri né filo spinato. Subito vediamo cambiare il loro volto. Finalmente capiscono che sono arrivati in un paese amico dove nessuno farà più loro del male. Le donne, inoltre, all’arrivo sull’isola, risultano essere quasi tutte incinte e, così, le portiamo al poliambulatorio per un’ecografia allo scopo di valutare lo stato di salute del loro bambino ma, soprattutto, per dar loro mezzora di felicità, il tempo di un’ecografia, e far loro dimenticare ciò che hanno vissuto fino a poco tempo prima.
A volte, purtroppo, non è stato possibile salvare tutti e, in tal caso, mi trovo a fare ciò che per me è più doloroso, le ispezioni cadaveriche. Ne ho fatte tante e questo ha ferito profondamente la mia anima, soprattutto quando si tratta di bambini e, talvolta, anche di neonati attaccati ancora alla madre dal cordone ombelicale. Pensate quanta sofferenza, quante atrocità. Ricordo ogni giorno il naufragio del 3 ottobre 2013. Quella mattina ero già in banchina perché durante la notte avevamo gestito due sbarchi imponenti di siriani per lo più. Quella mattina, dunque, ricevetti una chiamata dalla Capitaneria di porto che mi chiedeva di recarmi subito in banchina perché era successo qualcosa di grave, un naufragio con tanti morti. I morti furono veramente tanti, più di quanto potessi immaginare: 368 persone. Ho lavorato per quindici giorni consecutivi facendo ispezioni cadaveriche, prelevando frammenti di tessuti per l’estrazione del Dna e redigendo verbali richiesti dalle autorità giudiziarie.
Dobbiamo opporci a tanta crudeltà, esprimere la nostra opinione anche se siamo piccole gocce ma, si sa, tante piccole gocce formano il mare e il mare non divide ma unisce
Spesso sogno tutto ciò. Sono degli incubi che non riesco a rimuovere. Dopo il tre di ottobre doveva cambiare tutto, ma non è cambiato niente. Continuano gli sbarchi, continuano i naufragi, in molti continuano a morire. Dobbiamo opporci a tanta crudeltà, esprimere la nostra opinione anche se siamo piccole gocce ma, si sa, tante piccole gocce formano il mare e il mare non divide ma unisce. Esso unisce i continenti, i popoli e le loro culture. A partire dalla tragedia di Lampedusa, con l’operazione Mare Nostrum i migranti vengono portati per la maggior parte in Sicilia che, come Lampedusa, ha mostrato grande cuore, grande umanità, grande accoglienza. Sono tanti i centri che nella nostra regione accolgono adulti e minori non accompagnati. Si cerca di fare tutto il possibile per garantire un’adeguata integrazione ma c’è tanta strada da fare.
In conclusione, ritengo che la vera priorità sia agire al fine di evitare ulteriori morti in un tratto di mare, ormai così breve (solo venti miglia), ma che continua a essere teatro di sofferenza e, spesso, di morte per migliaia di uomini, donne e bambini. L’Europa ha fatto tanto con le operazioni Mare Nostrum e Frontex. Basterebbe fare ancora un piccolo passo organizzando corridoi umanitari attraverso i quali persone che cercano di abbandonare misere condizioni di vita potrebbero conquistare un’esistenza più serena non rischiando di morire. In tal modo si metterebbe fine a questa vergognosa pagina della storia dell’umanità.
*Pietro Bartolo, da 25 anni medico di Lampedusa, direttore sanitario della locale Asl, protagonista di Fuocoammare, film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino. Nel 2016 ha pubblicato, insieme alla giornalista Lidia Tilotta, il libro Lacrime di sale.
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