Negli anni sessanta si sviluppa in America una tendenza di dissenso del mondo giovanile contro il consumismo, il conformismo, le discriminazioni razziali, le tendenze imperialistiche della politica statunitense, i contrasti della “guerra fredda”, che con la “crisi di Cuba” del 1963, portarono ad un passo dal conflitto tra le due superpotenze impegnate in una corsa agli armamenti nucleari.
E’ qui che si fa largo la protesta degli Hippies, che contrapposero il “potere dei fiori” a quello delle armi. In ambito più generale, i giovani appartenenti alla “beat generation” e altri gruppi giovanili, manifestarono il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti, autoescludendosi dalla società in cui vivevano, considerandosi battuti da essa e quindi desiderosi di una vita diversa.
Questo rifiuto, com’era prevedibile, suscitò scandalo, sdegno e condanne.

Particolarmente dura era la critica all’autoritarismo ed in particolare alla famiglia, che secondo la loro visione, costituiva uno dei suoi perni principali. La famiglia reprime, educa all’ipocrisia, insinua la paura dell’autorità. La critica del movimento del sessanta non tardò a mettere sotto accusa questa come le altre “istituzioni” ispirate al principio autoritario. La famiglia in quanto tale, come nucleo composto da figure chiave (il padre e la madre, depositari del potere, oggetto di amore e odio), appare essere la struttura portante di ogni società fondata sullo “sfruttamento”. Le grandi istituzioni sociali, quali la Chiesa, l’esercito, lo Stato, non fanno che riprodurre in scala più ampia e articolata il medesimo rapporto di subordinazione e quindi gli stessi impedimenti alla realizzazione completa e libera dell’individuo.

Ma, dopo quarant’anni, i movimenti giovanili che fecero da precursori alla vera e propria ribellione del sessantotto, ci appaiono una manifestazione del desiderio puro e sincero di libertà, spirito che storicamente viene assegnato alla nazione americana, ma del quale in quel periodo si era perso il sentore.
All’interno del movimento “beat”, gli Hippies ricercarono una soluzione esistenziale alternativa all’integrazione in una società che essi consideravano “marcia e disumana”, creando piccole comunità autosufficienti basate sulla libertà, la non-violenza, il rapporto con la natura, l’abbandono al flusso delle cose, mutuando parecchi concetti della filosofia Zen. Il “flower power” si espresse soprattutto nella ricerca di una felicità prodotta artificialmente con l’uso di droghe, nella libertà sessuale, nella moda dei culti orientali. Nel bene e nel male, gli Hippies hanno contribuito in maniera forte al delinearsi della storia dei nostri tempi, concorrendo ad una rivoluzione culturale che si è affermata e diffusa ben oltre il contesto territoriale e sociale, in cui hanno avuto origine, modificando idee, modi di pensare, ordinamenti sociali, costumi di vita, espressioni artistiche dei diversi paesi del mondo ed influendo anche sugli orientamenti politici internazionali.
Quindi tornare a riflettere sui movimenti giovanili degli anni sessanta può tornare utile per capire i successivi delineamenti che si sono avuti nei paesi occidentali, dove la protesta dei giovani continua in modo latente in seno ad una corsa per l’inserimento in una società con spazi sempre più ristretti e dal futuro incerto, da cui i giovani temono di rimanere esclusi.

Gli effetti positivi della rivolta degli Hippies si individuano nella rivendicazione degli ideali pacifisti, dei metodi non violenti, dei diritti civili, di una concezione meno formalistica della famiglia, e nella propagazione di atteggiamenti più tolleranti nei confronti delle diversità e delle scelte sessuali. Né si può ignorare il contributo di creatività dato dal movimento alle arti rappresentative (teatro, cinema, pittura), alla musica (riscoperta della folk music, del blues e del jazz) e alla moda, anche attraverso l’introduzione di elementi tratti dalle culture orientali. Gli aspetti negativi, invece, sono costituiti dall’impulso dato al consumo di droga e dalla proposta di modelli di vita individualistici, che si ponevano sullo stesso piano dei modelli avversati.

Gli Hippies furono sostenitori di un’utopia e riuscirono a dimostrare, che anche le utopie possono contenere elementi vitali in grado di incidere nella realtà e di modificare situazioni cristallizzate.
Ma la loro era un’utopia pre-moderna, antiindustriale, che trovava la sua realizzazione nel ritorno ad un’agricoltura senza macchine. Questo segnò la fine del movimento, segnato dalla troppa astrattezza propria di tanti movimenti giovanili di protesta.
Alla giusta denuncia dei pericoli e delle conseguenze che una spropositata industrializzazione poteva portare, si accompagnava il rifiuto delle origini, in particolare della storia, e ciò portò inesorabilmente il movimento degli Hippies al riassorbimento in quel sistema fatale che con tanta audacia e caparbietà avevano condannato. In sostanza, gli Hippies rappresentarono solo un sintomo di quella malattia della società che i giovani avevano diagnosticato, non già una cura.

Gli Hippies adesso non esistono più, la breve ma forte manifestazione di protesta, impregnata da una scarica di vita e di coscienza si è dissolta, e i giovani d’oggi sono una generazione di perdenti, cconsumisti e conformisti, smidollati amanti delle patatine fritte e incapaci di costituirsi un proprio pensiero. Pertanto gli Hippies non hanno avuto un continuo generazionale che ha portato avanti il loro pensiero, e continuano a vivere in zone rurali degli USA, a cantare le stesse canzoni, a pensare le stesse idee, a fumare la stessa erba.

Salvo Angemi

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