Nella tragedia aquilana, a livello psicologico e sociale, si delineano casi complessi: chi non ha perso cari, chi ha trovato una autonoma sistemazione abbastanza vicino a dove lavorava, chi non ha perso il lavoro, chi ha ricevuto un alloggio, magari in albergo, di suo gradimento, non perde un attimo per lamentarsi. Chi ha perso tutto, spesso non dice una parola. Sono tanti quelli che cercano di accaparrarsi quanto più è possibile – chiedendo ogni giorno viveri in più alla Protezione Civile del proprio campo – nonostante siano benestanti, perché sono fermamente convinti che “ci devono tutto anche dopo sei mesi, perché siamo terremotati”. C’è chi, invece, prima aveva poco e ora quel minimo che gli è rimasto lo condivide con gli altri e cerca nel proprio piccolo di far ripartire l’economia cittadina.
Come si sa, Onna è stato tra i paesi più colpiti. Qui (grazie al fatto che fin dall’inizio il piccolo paesino è diventato l’emblema del terremoto abruzzese), hanno avuto tutti la “fortuna” di vedersi consegnate le case in tempo, per superare l’inverno rigido, e senza dover lasciare la propria comunità, sballottati da una zona all’altra dell’Abruzzo.
Altri non hanno avuto la stessa sorte. Era visibile la disperazione negli occhi di coloro che hanno perso tutto e che con soli due giorni di preavviso sono stati allontanati dalla tendopoli di Piazza D’Armi (dentro L’Aquila) mentre veniva smantellata. Alle persone sole che non sapevano dove andare, soltanto dopo ore di panico e di angoscia, è stata prospettata la possibilità di andare in alberghi o case di cura, ma situati alla periferia de L’Aquila o a Ovindoli, Avezzano, Teramo, Pescara… Queste sono persone che hanno trovato lavori precari a L’Aquila e non hanno i mezzi per allontanarsi; persone in dialisi (a cui almeno è stata garantita l’assistenza degli operatori Caritas che li dovrebbero portare in ospedale tutti i giorni); persone alcoliste e con handicap mentali; persone anziane.
Edda, per esempio, è una signora anziana autosufficiente, che abitava – e da giovane ci lavorava pure – nella ‘Zona rossa’. Da anni viveva da sola. Le sue sorelle e fratelli ormai erano quelle strade in cui passeggiava giornalmente, quei mercati e negozietti in cui si affacciava a comprare le sue necessità e a salutarne i dipendenti a cui lei aveva ceduto il passo. La sua terra insomma le faceva compagnia, come anche le studentesse che abitavano sopra casa sua. “Erano rispettose del silenzio, ma mi faceva piacere quando a volte mettevano la musica o mi venivano a portare dei dolcetti”. Lei è una tra quelli che lo scorso 10 settembre non sapevano ancora dove li avrebbero mandati.
Ci eravamo conosciute nell’ambulatorio di psicologia dell’Asl de L’Aquila, dentro ad un container sempre al campo di Piazza D’Armi, in cui la tesi a cui sto lavorando, è diventata l’ultima delle mie preoccupazioni, così la cara Edda mi venne incontro quel 10 settembre dicendomi nella sua dolce ingenuità “Faccia qualcosa la prego, la Protezione civile non mi ha ancora detto dove mi mandano. Non voglio andare in un albergo, o in casa di cura, che sta lontano. Ho paura di non rivederla più la mia città. La prego”. Ti senti stringere il cuore perché sai che non puoi fare nulla. “Io ero abituata a stare sola – Edda te lo dice con quegli occhioni di un marrone penetrante – ma ora non ce la faccio più, per fortuna ho conosciuto una signora con cui chiacchiero. A lei la mandano a Tagliacozzo, perché a me no?!”. Nel frattempo erano rimaste poche tende ancora in piedi, anche il container di psicologia era stato svuotato e smontato per essere trasferito ad Acquasanta. Ma Edda come ci arriverà fino a lì? Lei che era abituata a camminare a piedi in centro.
Così ti rendi conto che mentre tutti gli occhi e i riflettori sono puntati su Babbo-Natale-Berlusconi e sui terremotati di Onna, altre persone, con pari dignità, vengono lasciate al loro destino senza essere prese in considerazione: sono le fasce deboli degli sfollati, sono le tante Edda delle tendopoli di Piazza D’Armi, del Globo, di Paganica, di Camarda… a cui non viene data voce. Forse perché fin dall’inizio su di loro non sono mai stati puntati i riflettori.
Anche al campo di Paganica c’è subbuglio tra la popolazione: le case in affitto e gli alberghi nel comune de L’Aquila non sono sufficienti ad ospitare tutti. Nessuno vuole essere “deportato” in luoghi diversi da quelli di residenza perché “è una scelta che porterebbe quasi sicuramente a una totale disgregazione delle nostre comunità e quindi della nostra identità sociale”. Perciò i terremotati chiedono che vengano allestiti moduli abitativi e case mobili nei dintorni del loro paesino, dato che il piano “Case” secondo loro basterà solo per circa sedici mila persone in totale tra tutti i paesi colpiti. “Si rischia di sentirsi classificati in A, B, F come le case (da A a F cioè da completamente agibile a completamente inagibile) e di subire immensi particolarismi: magari chi prima non aveva nulla ora ha la casa; chi prima ce l’aveva ancora sta in tendopoli oppure deve accettare di spostarsi di 50-100 km. Le autorità, a modo loro, ci hanno rassicurati dicendoci che terranno il campo aperto fino al 31 ottobre, ma ormai qui fa freddo”. Intanto anche a Bazzano sono state consegnate le casette.
(Nella foto: Le casette di Paganica, in costruzione dietro la tendopoli n.2, a fine settembre erano ancora scheletri).
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