“Pena di morte”: sembra il triste epilogo di un film storico e invece è il retaggio di una giustizia barbarica che continua ancora oggi a consumarsi giorno dopo giorno davanti agli occhi della cosiddetta società civile. Il 2 dicembre, giornata mondiale “Cities for life: città per la vita, città contro la pena di morte”, l’auditorium dell’ex Monastero dei Benedettini ha gridato forte il suo “no” grazie all’iniziativa promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Ospite della giornata un ex condannato a morte, Curtis McCarty.
“Forse s’è smarrito il ricordo della storia, il ricordo del dolore della storia”. Così esordisce la dott.sa Alessia Pesaresi, responsabile regionale della Comunità di Sant’Egidio. Il suo discorso si apre con un messaggio di amore e di tolleranza verso le minoranze sociali, verso chi vive ai margini della vita poiché, in un certo senso, anch’essi sono dei condannati a morte: costretti a vedersi morire lentamente, ignorati dal mondo “per bene”, dimenticati come polvere nascosta sotto un tappeto. “Ma l’esempio più eclatante di cosa è capace di fare un uomo -continua la Pesaresi- è uccidere in modo razionale e meditato, uccidere per legge”. In fondo, la pena di morte è proprio questo, un omicidio legale.
Nemmeno l’opinione pubblica riesce ad essere univoca su questo tema. C’è chi pensa sia giusto ammazzare a sangue freddo chi ha ucciso a sua volta qualcuno. Come se la vendetta fosse la giustizia. “In Italia? Fanno le peggiori cose e dopo due giorni sono fuori dal carcere, pronti a commettere altri crimini” adducono come ragione. Ma il rimedio alla mancanza di certezza della pena non è di certo il ripristino della pena di morte. Pochi, invece, pensano a una cosa che, da sola, basterebbe a far cambiare loro idea: l’errore giudiziario. Per quanto possa sembrare impossibile o estremamente improbabile, la legge commette errori. A testimoniarlo è Curtis McCarty, condannato ingiustamente nel 1985 per l’omicidio di una ragazza, sua conoscente. Ha scontato ventidue anni, di cui diciannove nel braccio della morte, prima che la sua innocenza venisse provata. È il 124° condannato a morte dal 1976 rilasciato perché riconosciuto innocente.
Com’è fatto un ex condannato a morte? Cosa lo distingue da noi, gente “normale”? Nulla, se non uno sguardo dal quale trapela un passato di profonda sofferenza e nello stesso tempo una grande forza interiore. Quando Curtis racconta la sua storia sembra riviverla, parla lentamente, la sua voce è piena di emozione; c’è un interprete a tradurre le sue parole. “A quindici anni ho iniziato a fare uso di droga e a commettere piccoli crimini, sebbene la mia fosse una buona famiglia che ha sempre cercato di impartirmi una buona educazione. Mi ripromettevo continuamente di smettere, di migliorare la mia condotta di vita, ma poi ci ricascavo. Simile è la storia di Pam, una ragazza che ho conosciuto qualche anno dopo”.
Pam Willis fu trovata morta nell’appartamento di un suo amico il 10 dicembre 1982. Quarantanove gli indiziati, tra cui Curtis che però, dopo tutti gli accertamenti del caso, viene rilasciato. Passano tre anni e Curtis continua a condurre la vita dissipata di sempre, quando una soffiata comunica alla polizia che egli conosce il nome dell’assassino di Pam. Non è così. In quella circostanza vengono ripetute le prove biologiche: Curtis McCarty è accusato di omicidio di I grado. “Non potevo credere che questo potesse succedere nel mio Paese -racconta. Da bambini ci viene insegnato che l’America è una grande nazione e che ha una costituzione che ci protegge. Quando sentii la giuria pronunciare la parola ‘colpevole’ pensavo non potesse andare peggio. Mi sbagliavo”.
I processi di pena di morte negli Stati Uniti si articolano in due fasi: nella prima una giuria popolare decide se l’imputato è colpevole o innocente; nella seconda vengono giudicati i fattori attenuanti o aggravanti per decidere la pena. Non ci furono attenuanti. “Quando ero giovane -racconta Curtis- non facevo attenzione a politica e legge; sapevo soltanto che la pena di morte era riservata agli uomini più terribili ma poi ho scoperto che non era così. Degli ottanta uomini che ho conosciuto nel braccio della morte, molti erano giovani appartenenti a minoranze sociali, alcolizzati, pazzi, poveri, ignoranti ma soltanto pochi erano i peggiori dei peggiori. Con alcuni strinsi amicizia. Lo Stato dell’Oklahoma cominciò a ucciderli tutti. Nel 2001 -continua Curtis- venne giustiziato quello che era diventato il mio migliore amico, un uomo con cui condivisi la cella per undici anni: lo aiutai a mettere le sue cose nella valigia che sarebbe stata restituita alla sua famiglia, lo accompagnai fin dove mi fu concesso. Insieme a lui persi la speranza”.
Ma le cose stavano per cambiare. Gli avvocati di Innocence Project e l’FBI si interessarono al caso e riuscirono a far sottoporre Curtis al test del DNA; il risultato lo scagionò definitivamente e l’undici maggio del 2007 poté riabbracciare la sua famiglia. Proprio l’FBI scoprì che era stato il perito della polizia a falsificare le prove per poi distruggerle prima del secondo processo. “Vorrei poter dire che il giorno del mio rilascio fu quello più bello della mia vita -ricorda McCarty- ma niente avrebbe più potuto compensare l’afflizione, la violenza fisica e psicologica e la mancanza che avevo sopportato per così tanti anni”.
Nonostante tutto, oggi Curtis McCarty ha ricominciato a vivere. Gira il mondo per raccontare la sua terribile storia con lo scopo di scuotere le menti e costruire qualcosa di importante, per evitare che altre persone innocenti possano subire condanne ingiuste. Proprio durante una conferenza conosce la sua attuale compagna, avvocato per i diritti dell’uomo; insieme a lei conosce la Comunità di Sant’Egidio impegnata da sempre nella lotta contro la violazione dei diritti umani.
Un lungo ed emozionato applauso risuona nell’auditorium, segno di gratitudine per questa coraggiosa testimonianza. A seguire, Alessia Pesaresi legge una preghiera per i condannati a morte di tutto il mondo, dopo la quale ognuno può porre la propria firma per la sospensione universale della pena di morte.
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