A Cosa Nostra bastarono cinque proiettili per eliminare Giuseppe Fava, un uomo diventato troppo scomodo per gli interessi della criminalità locale. A ventisei anni dalla sua scomparsa – e una volta definitivamente accertata la matrice mafiosa del delitto – è sufficiente parlare di Fava solo come di un giornalista trucidato dalla mafia? Secondo il professor Giuseppe Dolei, germanista dell’Università di Catania, è arrivato il momento di andare oltre, di restituire a Fava il suo spessore di intellettuale che si è esposto coraggiosamente nel corso di quei tremendi anni Ottanta. Da qui nasce il libro “Il caso Fava. Tra poesia e verità”, che è stato presentato giovedì, al Coro di notte dei Benedettini. Presenti all’incontro l’italianista Salvatore S. Nigro, ordinario alla normale di Pisa, e la giornalista de “I Siciliani” Elena Brancati.
«Era giornalista, scrittore, drammaturgo e intellettuale a tutto tondo Pippo Fava, che con occhi lungimiranti aveva capito che la mafia aveva messo i piedi a Catania, mentre tutti ne negavano l’esistenza»; comincia così il professor Dolei. Dalle opere teatrali e dai romanzi di Fava si evince «tutta la potenza espressiva di un intellettuale che vedeva bene e che sapeva scrivere bene quello che vedeva». Scritte in uno stile meditato, spesso lontano dalla stringatezza del linguaggio giornalistico, le opere di Fava ricostruiscono le pagine più cruente della Catania degli anni Ottanta, una città che Nigro ha definito «una metropoli mancata, coalizzatasi contro Fava, personaggio scandaloso che si serviva della finzione letteraria come ulteriore mezzo espressivo, per denunciare le profonde piaghe di una città anormale».
Ai nemici che volevano metterne in ombra la figura, spiega ancora Dolei, «venne facilissimo sfigurarlo, eclissarlo ad autore di opere minori, definendolo uno scrittore dallo stile sciatto». Un modo per rimuovere un intellettuale che denunciava la mafia in una città che ne negava l’esistenza, e che subiva in silenzio i colpi delle sparatorie. Parlare di Fava come scrittore, osserva ancora Nigro, è più facile oggi, «perché il legame tra politica e criminalità non è più sotterrato come qualche anno fa. Grazie anche all’esempio di giovani come Saviano che con “Gomorra”, così come ha fatto Fava attraverso opere teatrali, saggi e articoli, si servono dell’efficace potenza della letteratura, per denunciare le verità più scandalose del nostro presente».
Giornalista militante, scrittore civile, intellettuale al corrente dei fatti di mafia e dei rapporti tra mafia, politica, affari, uomo capace di catalizzare con facilità l’attenzione su di sé: è tutto questo che la mafia temeva. «Sono certo – afferma Dolei – che furono questi i motivi scatenanti per i quali Fava venne eliminato, e non solo il fatto che aveva messo in luce gli sporchi affari tra i quattro maggiori imprenditori catanesi – i famosi “cavalieri dell’Apocalisse” – e la malavita locale. La gente lo ascoltava e chiedeva di leggere “I Siciliani”». Il primo numero della rivista, per esempio, andò esaurito nelle edicole poco dopo la stampa. La visibilità che Fava sapeva conquistarsi grazie al suo spessore di intellettuale, insomma, costituiva una ragione di allarme in più per Cosa Nostra catanese.
Elena Brancati, che sotto la guida di Fava è stata redattrice de “I Siciliani”, ha sottolineato l’importanza della operazione culturale di Dolei. Un’operazione importante perché «Fava è ricordato spesso come un giornalista irritante piuttosto che come letterato di dimensione europea». Ma, naturalmente, parlare di Fava letterato non deve significare sminuirne il valore civile e giornalistico. «Oggi bisognerebbe ricalcare il suo esempio, spronando i giovani e domandandosi perché un solo giornale possieda l’intero monopolio della città». Un tema, quest’ultimo, sul quale si è soffermata anche Elena Fava (presidentessa della fondazione intitolata allo scrittore) che ha denunciato il disinteresse dei mezzi di comunicazione locali nel mantenerne vivo il ricordo. «Bisognerebbe – ha concluso Nigro – analizzare la Catania di oggi così come la vedeva Fava, ricordare i messaggi che i salotti letterari della Catania bene del tempo definivano “minchionerie”». Minchionerie che però alla mafia facevano molto male. Tanto da costringerla a uccidere Fava.
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