Cosa c’è alla fine di un buon romanzo?
Björn Larsson, da non confondere col più celebre ma defunto Stieg, ritiene che alla fine di un buon romanzo, L’isola del tesoro di Stevenson nella fattispecie, ci sia un altro romanzo, quello che in un altro tempo, in un altro spazio, racconta la vera vita di un personaggio dell’immaginazione.
Il guaio è che se alla fine di un buon romanzo si trova un altro buon romanzo la domanda iniziale si ripete: cosa c’è alla fine di un buon romanzo?
Solitamente un buon romanzo lascia un’eredità nel lettore. Si può permanere in un vago stupore, si può piangere o ridere o piangere e ridere. Si possono imparare molte cose, si possono conoscere luoghi e persone meglio di quanto si possano conoscere dal vero. Si può rimanere soddisfatti o sconvolti, esausti o affamati. La possibilità del possibile, mi verrebbe da ripetere in preda a un delirio allitterante.
Cosa è successo a me dopo la lettura di questo romanzo?
Innanzitutto mi sono divertito, distratto, rilassato: le storie di pirati servono a divertire, distrarre e rilassare. Si fa bisboccia con quei brutti ceffi, ci si distrae e ci si rilassa in mezzo ai marosi in cui si svolgono le loro avventure, una thalassoterapia letteraria per così dire.
In seguito ho riflettuto sulla libertà, come principio e come aspirazione individuale. Long John Silver, detto Barbeque, persegue solo ed esclusivamente la sua libertà, la sua possibilità di vivere sempre e comunque a dispetto di tutti coloro che vorrebbero, con la forza, sopprimerlo. A dispetto anche di essere venduto come schiavo, nella consapevolezza che questo gli avrebbe regalato il tempo utile a organizzare la propria salvezza.
A dispetto dei tradimenti, delle bizzarrie, e della volubilità di chi lo circonda, come della fedeltà di coloro che lui ha liberato e che per questo si sentivano legati a lui a doppio filo.
E lui taglia tutti i fili e li ricuce a modo suo, raccontando la sua vita alla fine dei suoi giorni, vissuti in ricchezza e solitudine volontaria in un isola al largo del Madagascar.
Infine mi sono immedesimato nel vecchio pirata, anche se la mia vita non ha niente a che fare con quella dei gentiluomini di ventura di cui ci parla Long John: il nostro Barbeque parla del rapporto tra libertà e solitudine, e lo fa con l’amarezza e l’acutezza di un uomo di mare, e tutto questo si è insinuato dentro me.
I suoi interlocutori sono a turno i lettori, Daniel Defoe, Jim Hawkins e se stesso, e tutti sembrano dover seguire a bocca aperta lo svolgersi di questa vita, come fanno i bambini che giocano ai pirati, come dovrebbero fare un po’ tutti quando nell’affabulazione del racconto ci si lascia ricondurre verso il senso della propria esistenza.
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