Anche Catania partecipa alla giornata mondiale di solidarietà con la Siria, un evento nato per manifestare vicinanza al popolo al centro di una sanguinosa guerra civile ma anche per informare i cittadini spesso ignari di quanto accade nel Paese guidato dal regime di Bashar al-Assad. Una realtà che sembra lontana dal capoluogo etneo, eppure così vicina quando, negli scorsi mesi, la costa siciliana e le strutture cittadine hanno accolto i migranti di questo drammatico esodo: il Palaspedini e il Palacannizzaro prima, il centro di accoglienza di Mineo dopo. Oggi, in piazza Stesicoro, una ventina di passanti si sono fermati ad ascoltare Nawal Soufi, attivista marocchina ma in Italia fin dall’infanzia, che ha raccontato quanto ogni giorno accade in Siria a chi si oppone al regime: i bombardamenti, gli sfollati, l’orrore dei bambini uccisi, le torture. Eventi visti con i suoi occhi durante un viaggio in terra siriana a marzo e conosciuti attraverso i racconti dei contatti che ha mantenuto sul territorio e di quanti sono sbarcati a Catania.
«I partigiani», così Soufi chiama i ribelli siriani. La giovane, in piedi su una panchina della piazza, con il suo microfono portatile in mano e una serie di slogan a terra, descrive persone e luoghi. Come l’attivista-giornalista Omar e come la città, per lo più cristiana, di Homs. Nelle sue parole c’è la storia di Tarek, 19 anni «che cantava i brani della resistenza siriana e che per questo è stato ucciso alla fine di una manifestazione – racconta – La sua macchina è stata colpita talmente tante volte che il suo corpo, straziato dalle pallottole, era irriconoscibile». E prosegue: «Vorrei raccontarvi dei panifici in Siria e del fatto che oggi aprirne uno è pericoloso. Perché vengono bombardati dal regime di Assad, vengono uccise le donne in fila per il pane».
Anche chi circumnaviga in auto piazza Stesicoro rallenta per ascoltare i racconti urlati al megafono, con qualche pausa per bere un sorso d’acqua e l’esecuzione di canti di resistenza siriana. «Noi ci siamo riempiti molto la bocca con la parola libertà ma non sappiamo cosa vuol dire – afferma l’attivista – Non è solo la discoteca o rendersi indipendenti a 18 anni, ma è poter uscire di casa, gridare libertà per la strada e sperare che nessuno ti arresti». Una condizione che sembra non aver smosso le coscienze occidentali. «I partigiani siriani prima chiedevano aiuto, all’Europa e all’Onu, ma oggi hanno smesso – continua la giovane – Perché non siamo stati capaci di fare niente. Di creare un corridoio umanitario, di fare una manifestazione mondiale decente, di pressare i mass media internazionali».
Solo alcune delle richieste – formulate in contemporanea oggi in più di 20 Paesi del mondo – che gli organizzatori del flashmob etneo hanno condiviso in una nota. Tra queste ci sono «il rilascio dei prigionieri politici e il deferimento alla corte penale internazionale di tutti i criminali di guerra». Per porre fine a una guerra che finora «ha ucciso più di 15mila bambini, ha messo dieci milioni di persone nella condizione di sfollati, per non parlare del numero imprecisato di morti che ha causato».
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