Giorgio Bocca, una vita per il giornalismo

Dopo una breve malattia si è spento a Milano, all’età di 91 anni, Giorgio Bocca, uno dei più grandi giornalisti italiani del nostro tempo.
Raccontare la vita – anzi ‘le vite’ – di Bocca che, peraltro, lui stesso ha descritto in una bella autobiografia dal titolo: “Il provinciale”, non è facile. Bocca comincia da antifascista, cioè da partigiano: e questa è la sua prima vita. Ad Italia appena liberata dal nazi-fascismo, gli offrono importanti incarichi politici. Rifiuta per dedicarsi a quella che sarà la passione della sua vita: il giornalismo. E sarà, il giornalismo, la sua seconda e lunga vita che, per quasi sessant’anni, lo porterà in giro per l’Italia a raccontare, da cronista di razza, i sogni e le illusioni, le speranze e le passioni, ma anche le tragedie del nostro Paese.
Comincia a scrivere nell’edizione torinese di Italia Libera, il quotidiano del Partito d’Azione a Torino. Poi alla Gazzetta del popolo, negli anni del secondo dopoguerra. Segue i più importanti fatti di cronaca del tempo, dagli scioperi contadini alle lotte operaie. E, ancora, le vendette del “triangolo rosso”, la strage di Villarbasse, l’alluvione del Polesine.
Nel 1954 va a Milano per lavorare nella redazione dell’Europeo di Rizzoli. Dove troverà compagni di lavoro del calibro di Camilla Cederna e Oriana Fallaci.
Poi arriva la stagione de Il Giorno, il quotidiano voluto da Enrico Mattei, il presidente dell’Eni inviso ai grandi potentati internazionali del petrolio di quegli anni (le’Sette sorelle’). Al Giorno arriva chiamato dal direttore, Italo Pietra, ex-partigiano come lui: “Avevo quarant’anni – racconterà lo stesso Bocca – conoscevo il mestiere. Pietra mi aveva assunto, doveva aiutarmi, capii che era arrivato il momento di impormi e nel giornale delle notizie brevi chiesi pagine intere, come il primo servizio su Vigevano, la città dei calzolai”.
Nel ’76 Giorgio Bocca è tra i fondatori della nuova avventura de la Repubblica, insieme con Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo. Un quotidiano nazionale pronto a sfidare giornali storici, dal Corriere della Sera alla Stampa. Rimangono nella storia le sue inchieste sul terrirismo che, spesso, non erano tenere con una Giustizia pronta a generalizzare anche verso intellettuali ‘rei’, alla fine, di non amare il sistema di potere democristiano di quegli anni.
Poi c’è il rapporto tra Bocca e il Sud d’Italia: un rapporto difficile, venato di incomprensioni reciproche. Bocca, ad esempio, ha raccontato tanti fatti di mafia.
Celebre, nell’agosto del 1982, la sua intervista al generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, spedito in Sicilia per combattere la mafia nel ruolo di Prefetto con poteri speciali. Dalla Chiesa viene spedito in Sicilia all’indomani dell’omicidio dell’allora segretario regionale del Pci siciliano, Pio La Torre, e del suo autista Rosario Di Salvo (30 aprile 1982). Per l’alto ufficiale dei Carabinieri, che si è distinto nella lotta al terrorismo, il nuovo incarico è un ritorno nell’Isola dei mille misteri. Dalla Chiesa conosce bene la Sicilia per essere stato a Corleone, da Capitano dell’Arma, nei primi anni del secondo dopoguerra. E per essere tornato, sempre in Sicilia, negli anni ‘70, a comandare la legione dei Carabinieri della Sicilia occidentale.
Bocca, come già ricordato, va ad intervistare Dalla Chiesa nell’agosto del 1982. Il generale è già da tre mesi a Palermo. Leggendo l’intervista si capiva allora – e si capisce leggendola anche oggi – che Dalla Chiesa aveva, se non capito, quanto meno intuito quello che stava per succedere. Tante le cose importanti che l’alto ufficiale dell’Arma dice in quell’intervista. Due, in particolare, vengono centrate perfettamente da Bocca.
La prima è che la mafia – la borghesia mafiosa della Sicilia, onnipresente eri come oggi – quando capisce che qualcuno dà troppo fastidio, lo isola. Dalla Chiesa, in quell’intervista, parla della solutidine: la stessa solitudine che, dalla primavera del 1979 al 6 gennaio de 1980, giorno del suo assassinio, aveva accompagnato come un’ombra l’allora presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella.
La seconda cosa che Dalla Chiesa dice a Bocca riguarda la ‘famiglia’ politica più importante della Sicilia di quegli anni: gli andreottiani isolani capeggiati da Salvo Lima. Il generale lascia intendere che qualche segnale gli è, in un modo o nell’altro, fatto pervenire. Ma che lui ha risposto che non farà sconti a nessuno.
Dalla Chiesa, la sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, Domenico Russo, verranno trucidati, a Palermo, in via Carini, la sera del 3 settembre del 1982, una ventina di giorni dopo, o giù di lì, l’intervista rilasciata a Bocca. Parole, quelle scritte dal grande giornalista, che diventano una sorta di ‘testamento’ del generale Dalla Chiesa, a fronte di un esito della sua avventura siciliana che, già nell’agosto di quell’anno, sembrava già scritto.
L’abbiamo detto: raccontare la vita di un giornalista come Bocca in un articolo è impossibile. Il suo già citato rapporto con il Sud, per esempio. Bocca – dagli anni ‘90 fino ai nostri giorni – ha espresso sul Mezzogiorno e sulle sue classi dirigenti, o presente tali, giudizi durissimi. Alcuni condivisibili, altri meno condivisibili, altri ancora non condivisibili affatto. Forse, a anche lui, rispetto a certi temi del Sud, si è lasciato prendere la mano dalle generalizzazioni. Come quando, qualche anno fa, ha polemizzato con asprezza con gli amministratori dei Comuni della valle del Belìce che chiedevano a Roma le risorse finanziarie per completare la ricostruzione.
In quel caso, aveva torto Bocca, perché, conti alla mano, lo Stato, rispetto ai terremoti che hanno colpito il Friuli e l’Irpinia, ha dato molto meno ai terremotati del Belìce.
Qualche volta, sempre a proposito del Sud, Bocca è stato accusato di essere un po’ un razzista. Accuse ingiuste. Per due motivi. Perché, anche quando scriveva del Belìce, Bocca era sempre in buona fede. Ed è sempre stato in buona fede tutte le volte che ha descritto, forse in termini un po’ troppo aspri, le storture del Sud.
Un’altra cosa che va ricordata è stata la polemica, degli ultimi anni, con Giampaolo Pansa, che per tanto tempo è stato con lui a Repubblica. Pansa, è noto, in questi ultimi anni ha raccontato quello che è avvenuto nel Centro-Nord Italia all’indomani della seconda guerra mondiale, quando, di fatto, i partigiani – allora, in verità, già ez partigiani – continuarono la loro guerra contro i fascisti. Nel libro Il sangue dei vinti Pansa descrive, per filo e per segno, questa strana guerra, sottolineando l’inumanità di certi atti – che poi sono stati degli assassinii a tutti gli effetti – che se possono essere giustificati in guerra non possono certo essere giustificati in tempo di pace.
A Bocca, ex partigiano, la storia scritta a Pansa non è andata proprio giù. Né a lui, né ad altri partigiani comunisti, né ad altri storici comunisti. Tutti questi hanno definito Pansa uno storico “revisionista”. Anche in questo caso – come nel caso di certe descrizioni del Sud – a noi sembra che Pansa abbia ragione da vendere. La realtà va raccontata per quella che è e non per come si vorrebbe che fosse.

 

 

Giulio Ambrosetti

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