Che Gela sia inquinata adesso lo riconosce pure Eni. Ma ciò non ferma né le poche attività industriali né tantomeno accelera i processi di bonifica (comunque in atto). «Esiste, ed appare indiscutibile che esista – e nemmeno le società resistenti lo hanno contestato -, un ingente inquinamento entro l’area, definita come Sin di Gela». A metterlo nero su bianco è Virgilio Dante Bernardi, giudice ordinario al Tribunale di Gela, nelle motivazioni con le quali respinge il ricorso cautelativo d’urgenza presentato da centinaia di cittadini gelesi. Le società resistenti sono il cane a sei zampe e le sue consociate (Enimed, Raffineria di Gela, Versalis e Syndial). Il ricorso, presentato dagli avvocati Luigi Fontanella e Lausa Vassallo puntando sulla lesione al diritto alla salute, aveva fatto discutere molto nei mesi precedenti.
«Il diritto soggettivo alla salute dei ricorrenti – aggiunge il magistrato – non è seriamente messo a repentaglio dalle attività attualmente svolgentisi entro l’area del cosiddetto Petrolchimico, ridottesi, come è emerso in istruttoria, a quelle riferibili agli impianti TAS, TAF, biologico organico e industriale oltre a quella meramente estrattiva». Sulle 46 pagine della sentenza, 14 servono solamente a indicare le generalità dei quasi quattrocento ricorrenti. Si era aggiunto anche il Comune di Gela, che non solo aveva appoggiato le richieste ma aveva aggiunto ulteriori 80 milioni di euro dall’Eni «per assicurare un reddito di sussistenza ai lavoratori e alle famiglie coinvolti nel fermo e per fronteggiare, altresì, la conseguente e grave emergenza sociale».
E se è vero che gli impianti Eni sono per la gran parte fermi, si chiedeva comunque il blocco totale delle attività ancora in essere, che non sono poi così poco significative: vale a dire la centrale termoelettrica (che sottostà alle due famosi “torri” dell’impianto Snox) e che, come ribadiva il tecnico nella maxiperizia che ha fatto da colonna a questo ricorso, «tra le fonti di emissione di inquinanti in atmosfera la centrale è certamente quella più rilevante dal punto di vista almeno quantitativo»; gli impianti cooking 1 e 2; l’impianto Fluid Catalytic Cracking (Fcc), l’impianto biologico-industriale e quello del trattamento delle acque di scarico. Per tutti poi il ricorso invocava la bonifica dell’intera area industriale e degli 80 pozzi di estrazione che ancora insistono sulla piana.
Per Bernardi, però, si tratta di «un cumulo indistinto di domande» che non possono essere affrontate da un giudice ordinario. Il magistrato riconosce che «il Petrolchimico di Gela ha una lunga storia nell’area cittadina e nella vita, non solo economica, della cittadinanza gelese cui per molti decenni è stata legata, nel bene e nel male, una parte cospicua delle sorti dell’intera comunità. Tuttavia – aggiunge – a prescindere dai comprensibili risvolti di carattere emotivo che la questione inevitabilmente solleva, essa va affrontata negli stessi termini di diritto». Il giudice spiega di potersi pronunciare esclusivamente sul diritto singolo alla salubrità, non su quello pubblico che è materia di interesse del ministero dell’Ambiente. Bernardi ricorda infine che comunque gli impianti citati in precedenza sono o non attivi o comunque marciano a basso regime.
A pagare le spese processuali sarà lo stesso Comune di Gela. Il rischio era che potesse pagare anche un’ulteriore ammenda per lite temeraria, come richiesto dagli stessi legali Eni. «Con riguardo alla richiesta delle parti resistenti di condannare severamente alle spese le parti ricorrenti e il Comune di Gela – chiude il magistrato – anche al dichiarato scopo di scoraggiare per il futuro simili iniziative giudiziarie (reputate temerarie dalle resistenti), deve precisarsi che il giudice nell’applicazione del diritto non dà condanne di natura esemplare».
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