Gela, la Stidda si fa impresa: dai cornetti alla discoteca Pistola in bocca all’imprenditore: «Ti sparu comu ‘n cani»

«Tutti dobbiamo mangiare, puoi avere sempre bisogno… Siamo tutti sotto questo cielo… chi mangia assai si soffoca». Nei bar di Gela i cornetti dovevano essere quelli della Stidda. Così come i bicchieri e i patti di plastica, e i rotoloni di carta. Appena scarcerato dopo vent’anni di detenzione, il boss Bruno Di Giacomo non mancava occasione per ricordarlo agli esercenti gelesi. Linguaggio intimidatorio, minacce, incendi, colpi di fucile sulle vetrine. Pestaggi e pistole in bocca in alcuni casi. L’anima violenta e militare dell’associazione mafiosa garantiva a quella imprenditoriale di fare affari. 

«Prima dell’incendio – racconta uno dei commercianti vessati che ha visto la sua attività devastata dalle fiamme – è venuto più volte al bar Bruno Di Giacomo, che sapevo essere noto mafioso di Gela, il quale mi proponeva di prendere della merce per il mio esercizio commerciale: prodotti per il confezionamento dei dolci, sacchetti di plastica, bicchieri di plastica e rotoloni di carta. Io non accettai, perché in quel periodo ero preso dal lavoro e tergiversavo. Tengo a precisare che Di Giacomo non ebbe mai un atteggiamento minaccioso, ma insistente sì. Dopo l’incendio nessuno mi avanzò alcun tipo di richiesta, ma ricordo bene che Di Giacomo tornò alla carica perché prendessi la merce da lui. Nel frattempo, a Gela tra i commercianti si era sparsa la voce che se prendevi il suo materiale, non si andava incontro a incendi o danneggiamenti, pertanto tenuto conto che non volevo correre ulteriori rischi per la mia attività o per l’incolumità mia e dei miei familiari, decidevo di dare retta alle voci». 

È il racconto di uno, che delinea una prassi subita da molti. Bruno Di Giacomo, 44 anni, e il fratello Giovanni, 47, avrebbero fatto affari in diversi settori, a cominciare dal commercio di saponi e detersivi e ingrosso di bibite, alcolici e altri prodotti nel settore alimentare, attraverso le società Cartaplastic srls e Sweet Plastic srls, intestate alla moglie 25enne Laura Cosca e sequestrate ieri dalla Dda di Caltanissetta. Ai bar veniva imposta anche la fornitura di cornetti del bar Montebianco, di Nunzio Camalleri, cognato dei fratelli Di Giacomo, e del figlio Samuele

Chi non accettava i servizi dei Di Giacomo ne pagava le conseguenze. Gli inquirenti, anche grazie alle dichiarazioni del pentito Giovanni Canotto, riconducono a queste dinamiche criminali gli incendi ai bar Belvedere e Peccati di gola, gli spari contro la pasticceria L’Etoile, al bar Crispi e al panificio Donzelli. Mentre i danneggiamenti al bar Desirée, gestito da Alessandro Scilio (arrestato ieri e accusato di essere un affiliato della Stidda) sarebbero da ricondurre a screzi tra lo stesso Scilio e Di Giacomo, divisi da problemi di donne. 

Il successo delle aziende riconducibili al boss passava anche dall’intimidazione dei fornitori concorrenti, che chiedevano il permesso a Di Giacomo e stavano attenti a non irritarlo. Una sottomissione evidente in una intercettazione in cui il capo della Stidda chiama un altro imprenditore che rifornisce i bar di plastica, per verificare la fondatezza di alcune voci che gli sono arrivate in merito ai prezzi fatti dal concorrente. «Le borse da venti chili… quanto li esci tu?». «Io due e cinquanta al chilo! Cinquanta euru o saccu!». Ma Di Giacomo insiste: «Ma ci sono persone chi tu dai a quarantotto euro?». «Sulu a unu», si affretta a rispondere l’altro. «Va bene. Tu u sai chi iu viri chi so tutto! Iu tu st’ha dicennu, infatti tu st’ha dicennu!», lo mette in guardia il boss. 

Altri settori infiltrati sono quelli della dismissione della plastica nelle serre e dell’edilizia. Secondo la ricostruzione della squadra mobile di Caltanissetta, ci sarebbero sempre i fratelli Di Giacomo dietro il complesso di villette di via Ambrica, nel quartiere Macchitella. Realizzate dalla società Letizia Costruzioni Generali, formalmente intestata ad Alessandro Pennata e Francesco Carfì (il primo figlioccio e il secondo nipote acquisito di Giovanni Di Giacomo; entrambi arrestati ieri), ma di fatto gestita dalla Stidda.

Ma l’attività di certo più nota che sarebbe finita, almeno per un periodo, in mano ai boss è certamente la discoteca Malibù. Il locale – molto frequentato dai giovani gelesi – si trova in un immobile di proprietà di Rocco Di Giacomo, cognato dei fratelli Bruno e Giovanni. E, stando alle indagini che coprono un periodo tra il 2015 e il 2017, le attività che si svolgevano erano equamente divise tra Cosa Nostra e Stidda: la prima avrebbe gestito quelle estive, la seconda quelle invernali. Sia per quanto riguarda la parte di intrattenimento musicale, che per sicurezza, buttafuori e parcheggi. 

In particolare la Dda ha sequestrato la società Malibù Indoor srls, intestata in parte a Giuseppe D’Antoni, ma gestita di fatto dal padre Luigi e dai fratelli Di Giacomo tramite la longa manus dell’affiliato Vincenzo Di Maggio. Ai due D’Antoni, padre e figlio, vengono contestati i reati di intestazione fittizia e riciclaggio. Nel 2015 i capi della Stidda avrebbero direttamente investito sulla società, non ottenendo però i risultati sperati. 

Convinti che Luigi D’Antoni gli nascondesse i reali incassi, dopo vari avvertimenti, è Bruno Di Giacomo a passare all’azione: prima con un pestaggio – «Già ci desi i mazzati…», racconta al suo braccio destro Di Maggio – e poi portando D’Antoni in campagna e minacciandolo con una pistola in bocca. Una scena che viene intercettata dalla polizia, grazie alle microspie installate nell’auto. «Caiu a fari? Taiu a sparari? Io a tia ti grapu a vucca e ti mettu a pistola accussì, e ti sparu comu un cani. Sai cavìa pinsatu stasira? Tavìa a purtari luntanu e tavìa a scarricari quattru corpa di pistola… e si finiva u film … pirchì pigghiata po culu io unni mangiu. Pirchì ma purtari a stu puntu? Maffari pigghiari a pistola … pirchì?». D’Antoni, terrorizzato, assicura il pagamento e riverisce il boss: «Io ti stimo chiossà di prima, sei un grande, perché mi hai dimostrato che sei un uomo». 

Salvo Catalano

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