Gela, la spaccatura tra operai diretti e indotto Camusso: «Sembra che Eni non voglia investire»

«Tra gli armadietti dei dipendenti Eni ce n’è ancora uno, è vicino al mio tra l’altro, che porta un nome e un cognome illustri: Rosario Crocetta». A raccontarlo è un collega, che preferisce rimanere anonimo. «Sai com’è, firmiamo un codice etico che ci impedisce di divulgare all’esterno quel che avviene all’interno dell’azienda. Ma queste sono cose note. Solo che di questi tempi meglio essere prudenti». 

All’esterno della Raffineria di Gela sono poche decine i lavoratori del diretto che hanno sposato la vertenza nazionale contro la vendita di Versalis e del reparto chimica da parte del cane a sei zampe. Qui d’altra parte quelle produzioni sono state dismesse da tempo. Fino a poco tempo fa si lavoravano gli scarti delle altre raffinerie. Ora gli unici impianti attivi sono quelli relativi alla depurazione delle acque. «Provano a rifilarci la bufala della green refinery e della gomma naturale a partire dall’arbusto del guayule (il progetto pilota citato nel protocollo d’intesa sul quale punta la Regione siciliana ndr). Una bufala datata, questa, ci provò senza risultati, nell’ottica dell’autarchia fascista, già Mussolini nelle Puglie». 

Nonostante la riduzione della produzione la spaccatura atavica tra diretto e indotto non si sana. Ai cancelli della Raffineria ci sono i lavoratori Eni, sulle strade quelli delle piccole e medie imprese che lavoravano con gli appalti del cane a sei zampe. «Le ruggini andranno avanti per anni – continua disilluso la fonte anonima -. Figurarsi che gli edili sono pure entrati, proprio per sancire la rottura con noi. E questo nonostante i ripetuti schiaffi morali alla città. È prima di dismettere un ciclo produttivo che si coltivano le alternative, questo Eni lo sa bene, è un principio industriale tra i più noti». 

Un altro lavoratore, Nicola, se la prende con la politica. «La più vecchia raffineria d’Italia è a Livorno, risale al 1936 – analizza -. Chi ci è stato racconta che gli impianti sono in pessime condizioni. Quindi la decisione di salvarla è stata unicamente una scelta politica e non economica. Così come a Sannazzaro, dove la Lega si è fatta sentire. Io mica difendo gli impianti gelesi, attenzione, non ho messo radici qui e lo sappiamo tutti cosa ci ha portato il petrolchimico. Almeno però ci fosse stato dato qualcos’altro». A queste considerazioni si aggiungono quelle di Antonio, che invece si scaglia contro i sindacati, pur partecipando alla manifestazione indetta dai confederali. «Riescono ancora a fare rumore e ad attirare l’attenzione anche se sono attori di una parte – attacca -. Sono loro ad averci portato allo sfascio. Sono anni che non si fa un’assemblea generale. I sindacati hanno solo pensato a sistemare le teste calde, promettendo a noi del diretto allettanti incarichi all’estero. Mentre l’azienda qui moriva».  

Oggi, a distanza ha risposto la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, in visita a Palermo. Prima ha sottolineato le gravi conseguenze della dismissione della chimica da parte di Eni «Il disimpegno di una delle partecipate pubbliche avrebbe anche un effetto di disimpegno per le aziende che convivono negli stessi poli. Per questo continua la nostra mobilitazione. Grande latitante è il governo». Poi, a chi le ha fatto notare che anche la Cgil ha firmato il piano di riconversione in green refinery del Petrolchimico di Gela, ha risposto: «Guardiamo al futuro. A noi non è estraneo il tema delle trasformazioni in aziende green. Lo abbiamo fatto a Porto Torres con l’Eni nella trasformazione della chimica. Anche sul tema della raffinazione occorre andare verso un’evoluzione. Quello che sconcerta è che tutti dicano che stanno facendo quel che devono, ma il risultato è che gli investimenti non stanno andando avanti e gli impegni non si stando verificando. Il problema non è l’accordo, che andava bene ma se fossero seguiti i fatti. La scelta di Eni fa pensare che in realtà non voglia mantenere il piano degli investimenti».

Andrea Turco

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