Gela, il j’accuse: «Il Pd in mano al boia Eni» Toni Gangarossa propone l’autogestione

«Coloro che hanno consentito l’abbandono dell’Eni adesso non possono gestire la vertenza della raffineria di Gela». Parole forti, specie se vengono da Toni Gangarossa, componente della commissione nazionale lavoro del Partito democratico. Sostanzialmente una scomunica al proprio partito. «Se l’Eni si può permettere di fare la voce grossa è perché un pezzo del Pd ha avuto relazioni con l’azienda – continua Gangarossa – Non ci si può mettere in mano al boia». Una denuncia netta, ma che ha ancora bisogno di nomi. «Rosario Crocetta?», chiediamo. «Non solo lui. Penso ad esempio al suo maggiore sponsor, l’onorevole Beppe Lumia. Lui è più consequenziale al sistema Cuffaro–Lombardo, deputato nazionale da non so quante legislature».

Facciamo un passo indietro. Lunedì 28 luglio, nel corso dell’incontro organizzato dal presidente dell’assemblea provinciale Carlo Romano e dal segretario Giuseppe Galle, Gangarossa prende la parola. «Periodicamente un’auto blindata entrava alla raffineria – si legge sulle cronache del giorno dopo – e stabiliva con i vertici come attribuire le commesse». Il suo j’accuse rimane inascoltato. «Provocazioni», secondo il segretario regionale Fausto Raciti. Solo che Gangarossa esce fuori dal coro non solo per le critiche che fa ad un intero sistema ma anche per la proposta. Anche questa, finora, inascoltata.

Quello che ha detto avrebbe potuto far saltare in tanti dalla sedia. Eppure non mi sembra ci siano state reazioni adeguate, anche da parte della stampa. Come ha reagito il suo partito?
«Il Pd è un pachiderma, un grande partito ma con equilibri precari, ecco perché non si può intestare la battaglia per la raffineria di Gela. Da anni si parla del binomio legalità e sviluppo. A un modello di legalità non è però seguito lo sviluppo. Anzi, non solo si è deviato dalle regole della libera impresa ma, se andiamo a vedere, neanche gli appalti sostenuti sono stati virtuosi e con tutti i crismi della legalità. Pensiamo a questa vicenda: chi andrà a raccogliere i posti di lavoro che salteranno sarà la mafia. La politica doveva alzare il tiro quando poteva, non ora col morto in casa».

Può farmi qualche esempio?
«È dal 2008 che l’Eni fa promesse di investimenti, con la contropartita del ridimensionamento delle maestranze. Basti pensare che quell’anno i lavoratori dell’indotto erano 2500, oggi sono poco più della metà. Prendiamo il caso della Comeco, che conosco bene perché ne facevo parte. La Comeco nasce dal collasso delle grandi cooperative come Conapro ed Emi e Cns, che si aggiudicavano gli appalti più grandi. Nel 2008 la Comeco vantava 110 dipendenti, quasi tutti soci della cooperativa, e un fatturato di 12 milioni di euro l’anno. Nel 2011, a causa dei rinvii degli investimenti del cane a sei zampe e dell’esiguità delle commesse, il fatturato si assottiglia a cinque milioni di euro. In soli tre anni. Per le modalità con cui l’Eni distribuisce gli appalti un’impresa che doveva crescere veniva pompata, chi doveva morire veniva dissanguata. Ma sono cose che si sanno».

Quanto serve ribadirle in un momento di crisi come questo?
«Sono anni che denuncio. Nel 2010 scrissi un manifesto coi lavoratori dell’indotto che mi costò l’epurazione della raffineria. So per certo che l’ingegnere Bernardo Casa (ex amministratore delegato della raffineria di Gela, ndr) disse “Gangarossa non potrà più entrare allo stabilimento”. E così è stato».

Cosa ne pensa della linea che portano avanti istituzioni e sindacati, ovvero che l’Eni deve rimanere rispettando gli accordi?
«È notizia di oggi che l’Eni ha promesso al tavolo del ministero 200 milioni di euro di bonifiche. Visto che stanno rimanendo poche grandi aziende a poter trattare con la multinazionale si formerà un comitato d’affari. Ipotizzare una decretazione d’urgenza, specie se si guarda al quadro nazionale in cui pare che non ci siano soldi neanche per la cassa integrazione, è utopistico. Oggi solo una visione ampia e a lungo raggio può farci sciogliere i nodi».

Ovvero?
«Già nel 2012 al museo della scienza a Napoli, poco prima del famoso rogo, lanciai l’idea della company. Se l’Eni non ha nel core business il territorio ma preferisce la speculazione finanziaria creiamo una company, in parte con la cooperazione, una compagine di imprese per un’autogestione della raffineria di Gela. Facciamo azionariato diffuso, prevediamo privilegi fiscali per le imprese, portiamo anche in Sicilia il sistema delle pompe bianche che garantirebbero al costo del carburante di abbassarsi del 10 per cento».

E nell’immediato come si potrebbero garantire i posti di lavoro, specie per gli operai dell’indotto?
«Si elabora un livello di discussione che guardi alla produzione e non più all’assistenzialismo. L’Eni vuole andarsene? Benissimo, lo faccia pure, accompagnando l’uscita con un piano industriale che prevede da qui a cinque anni l’autosufficienza. Il ruolo sociale dell’impresa sarebbe insomma la riprogrammazione del piano industriale. Conviene anche allo Stato: sia perché, al momento, con quel 30 per cento di partecipazione, soffre anche le perdite dell’Eni, sia perché costa di più mantenere 750 – 1000 lavoratori in cassa integrazione».

Temo che non ci siano le capacità né le volontà politiche per un piano del genere, non crede?
«Vale quello che ho detto prima. E poi vi pare che l’Eni possa acconsentire a mettersi un concorrente in casa? Ma non ci sono altre strade. Possiamo fare scelte coraggiose in nome della crisi. Alziamo il tiro delle richieste».

Andrea Turco

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