Fortino, il comitato elettorale che diventerà putìa La storia del torinese tornato dopo cinquant’anni

Piazza Palestro, ore 11. Quando Filippo (nome di fantasia) passa per la strada con la busta della spesa lo salutano tutti. Lui ricambia parlando in italiano – niente dialetto – con un accento strano. «Mi chiamano il torinese», ride. È la sua l’altra storia incontrata durante il viaggio nel mondo della musica napoletana a Catania per la prossima puntata di MeridioTrotter. E, come nel caso del pranzo spettacolo, anche per raccontare questo spaccato di città ci si imbatte nei manifesti dell’onorevole Pd Luca Sammartino, candidato alle elezioni regionali dell’ormai vicino 5 novembre. Un suo comitato elettorale, proprio di fronte al Fortino, attende di diventare la putìa di Filippo il torinese. «Io lui l’ho visto una volta – spiega – Tenere qua i manifesti è una cortesia, tanto non mi danno fastidio». Sono sullo specchio, davanti alla porta, attaccati al frigorifero. I santini sono sul bancone. Ma la sua vita con la politica di questi giorni ha poco a che vedere. «A me non interessa», conferma lui.

Sette figli, 70 anni, 50 dei quali vissuti a Torino. Almeno tre nel carcere di massima sicurezza di Cuneo. Condannato negli anni del maxi-processo che nel 1988 smantellò il cosiddetto clan dei catanesi a suon di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. «Perché me ne sono andato da Catania? – comincia – Ci vuole un sacco di tempo per raccontarlo». Nella bottega, che ancora tiene su la vecchia insegna di un negozio di articoli per la casa, stappa una bottiglia di Spuma e versa un bicchiere di zibibbo. «Ero un bambino, facevo le consegne al panificio oppure il muratore. Ma mi piaceva avere i soldi in tasca senza lavorare». A 13 anni, cresciuto tra via Palermo e via Aurora, a casa ci voleva stare solo il minimo indispensabile. Ancora minorenne in carcere, «quando a piazza Lanza c’erano anche i ragazzini», ci è finito un paio di volte. Aveva cominciato con qualche furto sull’incasso del pane, poi Vespe, Lambrette, macchine, scippi. Il ferro in tasca, assieme a un coltellaccio tanto. «Sono scappato di casa perché sennò mio papà mi dava botte da orbi perché non andavo a lavorare. Dormivo qua, bello legato, sull’albero di piazza Palestro».

Erano gli anni Sessanta, la Catania di allora a quella di ora somiglia poco. «C’era ancora la collina di via delle Medaglie d’oro, quella che poi hanno spianato e ci hanno costruito sopra». Un giorno, da Paternò, arriva un uomo a reclamare la restituzione di quanto dovuto. «Nomi non ne faccio – premette, e questa sarà la costante della sua storia – Era scesa questa persona importante, solo che io non lo sapevo che era importante. Ero un bambino, per me chi era questo non significava niente». Con «persona importante» cosa intende? «Un mafioso, che lo conoscevano tutti e lo sapevano tutti. Io, però, all’epoca volevo fare quello coraggioso. E non ho capito subito contro chi mi ero messo. Però un giorno ero al biliardo, ne frequentavo uno in via Plebiscito, e il proprietario, che era un altro importante, mi fa: “Tu non ne hai amici da qualche parte? A Milano? A Torino? Se ti do i soldi, perché non te ne vai?”. Io tanto, prima o poi, da Catania me ne sarei voluto andare comunque».

Perciò i soldi per il biglietto del treno li prende. E parte. «Ho capito più avanti che così mi ero salvato la vita, sarei stato tra i primi morti ammazzati dalla mafia». Come quasi tutti quelli con cui condivideva la detenzione in piazza Lanza, da minorenne. «Uccisi quasi tutti». Diventati, dopo avere cominciato con la micro-criminalità, la manovalanza di quella organizzata. O l’elemento di disturbo in un sistema che si basava sul silenzio e sul tenere bassa l’attenzione. «A Torino ho cominciato a lavorare, spesso in nero, sempre da muratore». Senza interrompere, però, i contatti con gli ex concittadini. A disposizione dei quali continua a mettersi quando c’è bisogno, guadagnando una condanna a tre anni per favoreggiamento. «Senza l’aggravante dell’appartenenza alla mafia, sennò gli anni erano almeno 16 – prosegue – I pentiti hanno fatto il mio nome, hanno detto che era a me che consegnavano le armi». Nel 1988 il maxi-processo si conclude con oltre 130 condanne su quasi 200 imputati. Le accuse, a vario titolo, sono di droga, estorsioni, sequestri di persona, prostituzione, rapine, ferimenti. Nel capoluogo piemontese, in quasi due anni di udienza, si devono risolvere 61 omicidi di mafia. Le pagine di La Stampa dell’archivio storico sono quelle di una Regione che scopre, con sgomento, che Cosa nostra è emigrata.

«Sono uscito dal carcere nel 1991 e non ci sono rientrato più – sostiene Filippo il torinese – Mi sono aggiustato». Due divorzi alle spalle, un’impresa di costruzioni poi andata male («Se il dieci per cento lo devi pagare a quello, il dieci per cento a quell’altro, un’altra cifra a quell’altro ancora… Poi non ti restano neanche abbastanza soldi per pagare le tasse»), una gastronomia e un bar avviati e chiusi a Torino. «All’inizio le cose andavano avanti e stavamo molto bene, poi la crisi ha toccato tutti. È scaduto il contratto di sei anni più sei anni per il bar e sono cominciate le difficoltà». Anche quelle con entrambe le ex mogli. «È stato quando avevo il bar che ho cominciato ad appassionarmi alla cucina: chi veniva a pranzo, chi si fermava per giocare a carte e poi diceva “Filippo, falli due spaghetti”». Così, dopo una lite con la compagna di una vita – catanese, che a Torino si è trasferita con lui per sposarlo meno che ventenne – con la stessa rapidità di quando era fuggito dal rischio di essere ucciso, ha preso un treno ed è tornato. «Non mi sono portato praticamente niente – prosegue – ormai sono passati tre anni. Certo, Torino è un’altra cosa rispetto a Catania. Ma qua ci sono nato ed è casa mia».

In tre anni, ha messo da parte i soldi della pensione e ha impegnato alcuni dei gioielli che aveva. In attesa di vendere due immobili di famiglia nella zona di via Plebiscito. «Ho lavorato con le mie mani: ho fatto il bancone, il bagno e l’antibagno, ho piastrellato tutto. Contando tutto, compreso il mio lavoro, rifare queste due stanze mi sarà costato quasi 30mila euro». Ancora mancano, però, la cucina e le autorizzazioni. Intanto da lui, in piazza Palestro, ci si fermano tutti per un caffè o un bicchiere di vino. «Finalmente sono tranquillo – conclude – Pago l’affitto a una signora bellissima, mi rimangono meno di 200 euro ogni mese e ci campo benissimo. Prima ero ricco e avevo un sacco di pensieri, adesso sono povero e sto bene. L’importante è che la testa regge e che mi diverto». La vita che ha fatto la rifarebbe? «Quando avevo 16 anni avevo fatto esperienze che le persone non fanno in sessant’anni di vita. I tempi sono cambiati. Ero sveglio, ma avevo la testa di un bambino. Quando mi sono aggiustato ho cominciato a spaccarmi la schiena a lavorare e ho lavorato tutta la vita. Lavoro pure adesso se mi chiamano. Il muratore ce l’ho ancora la forza di farlo. Mi basta così».

Luisa Santangelo

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