Fondo salva-Stati? No, solo salva-banche. In pratica, una speculazione colossale ai danni dei cittadini

OVVIAMENTE A PAGARE SONO GLI IGNARI CITTADINI. FAVORENDO, GUARDA CASO, LE AZIENDE DI CREDITO TEDESCHE. IL PARERE DELL’ECONOMISTA SICILIANA, LIDIA UNDIEMI

Da qualche tempo è invalsa nel mondo finanziario internazionale una formula aurea “Too big to fall”. Un modo di dire che il sistema bancario più è grande e potente e più è sicuro di non potere fallire qualsiasi schifezza esso compia. Lo slogan deriva dalla formula adottata da Henry Paulson, sottosegretario all’Economia di George Bush, incaricato il 3 ottobre 2008 di soccorrere le banche a rischio fallimento a seguito della bolla dei mutui subprime. Egli assunse questa formula d’intervento e la filosofia economico-finanziaria che ad essa sottintendeva.

Questo modo di dire e di pensare ha prodotto danni incalcolabili al sistema economico mondiale. Una crisi dalla quale alcuni Paesi, dopo anni, stanno faticosamente uscendo, ma che in Europa, nell’Europa dell’Euro, purtroppo, continua indisturbata a fare danni in tutte le direzioni. Chi più, chi meno tutti i Paesi dell’eurozona ne soffrono pesantemente. Ma questo stato di cose non preoccupa i big della politica europea, per loro l’assillo più incombente è il modo di salvare le banche dal loro rischio di fallimento e ci si sono messi di buona lena il commissario al Mercato interno e i servizi, ex ministro dell’Agricoltura di Nicholas Sarkosy, Michel Barner, il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, e la cancelliera tedesca Angela Merkel. (sopra, a destra, foto tratta da aduc.it) 

I tre hanno scoperto che il fondo salva banche esistente dispone di fondi irrisori rispetto all’ammontare del rischio fallimento anche di una sola grande banca europea, appena 55 miliardi di euro (la tassazione dell’euro l’1 per cento dei depositi bancari) a fronte di un rischio stimato di 1500 miliardi di euro di esposizioni e di titoli tossici da esse detenute. Per fare fronte all’eventuale – anche se molto probabile – rischio fallimento, i tre big europei – con la collaborazione di grandi lobby bancarie, quali l’Institute of international Finance di Washington o l’European Banking Federation – hanno deciso di elevare all’8 per cento la tassazione dei depositi, da destinare agli accantonamenti sul fondo di riserva salva banche.

Anche in questo caso, l’ammontare conseguibile appare insufficiente se raffrontato ai consigli che a tal proposito aveva avanzato Alan Greenspan, ex capo della Federal Reserve Usa (ora sostituito da Janet Yellen), il quale consigliava un tasso non inferiore al 14 per cento. Tuttavia, per raggiungere un ammontare pressoché sufficiente a garantire la copertura del rischio fallimenti occorreranno almeno dieci anni.

Frattanto, ove dovesse avvenire un fallimento, a pagare i danni sarebbe il Mes, ovvero il Meccanismo europeo di stabilità. In termini concreti, al di là delle sigle, pagheremmo tutti noi con le tasse e i prelievi fiscali di ogni tipo e genere. E pagheremmo per almeno dieci anni, quanti ce ne vogliono per realizzare il fondo salva banche progettato dal trio Barner-Merkel-Draghi, che comunque varrebbe per eventuali successivi fallimenti, perché pensare a possibili rimborsi è una vera e propria chimera.

I dati fin qui riportati sono il risultato di una ricerca condotta dal Ceo, Corporate europe observatory di Olivier Hoedman, un gruppo di ricerca e campagne di lavoro per esporre e sfidare l’accesso privilegiato e l’influenza di cui godono le società e i loro gruppi di pressione nei processi decisionali della Unione europea.

Queste notizie sono riferite da “Siamo la gente” che ospita un articolo del giornalista, free lance, Paul Barnard, il quale di sé dice: “…sto molto antipatico al sistema e ancor di più all’antisistema. Una condizione un po’ insolita e ora non so più da che parte girarmi”. Egli senza tanti fronzoli dell’operazione salva banche ideata in Europa dice, testualmente: “Una colossale frode, destinata a dare il colpo di grazia all’economia dell’Eurozona: ancora più tasse, più debito, più crisi”.

Questo il quadro entro il quale si colloca la presidenza italiana dell’Europa. Rispetto a questo contesto Matteo Renzi conferma l’adesione dell’Italia alle regole esistenti – trattato di Maastricht compreso – e da ‘rottamatore’ rischia di restare stritolato dal sistema bancario e finanziario che presiede alle politiche economiche europee. Non è per caso che il suo Governo non affronta le ragioni della crisi economico-produttiva del Paese.

A Renzi delle questioni dell’economia non interessa un bel niente. Per gli interessi che egli rappresenta le operazioni europee dirette a proteggere le banche con i soldi dei cittadini vanno assai bene e, perciò, non ha alcun motivo di chiedere la modifica degli orientamenti, La cosa importante per il suo Governo è quella di modificare gli assetti istituzionali del potere per dare corpo ad un sistema verticistico, di democrazia autoritaria che riduca il ruolo attivo dei cittadini e delle loro organizzazioni di partecipazione.

La scelta di Renzi in Europa non ha nulla di riformatrice, egli si accontenta della ‘flessibilità’, cioè di una interpretazione più tollerante delle regole esistenti. Regole che si sono dimostrate disastrose per l’economia continentale con l’ampliamento della disoccupazione, la stasi produttiva, l’arretramento del mercato e della competitività, l’impoverimento della condizione del lavoro, il tutto compensato dall’arricchimento spropositato del sistema bancario e finanziario.

Di fronte a tale fallimento non si corre ai ripari modificando il trattato di Maastricht e rivedendo i suoi parametri suicidi, si preferisce un’interpretazione meno rigorosa dei loro effetti. Un riformismo becero e controproducente che lascia l’Europa alla mercé dell’egemonia Usa che si concretizza nel negoziato segreto delle norme salva multinazionali e nell’altro negoziato, altrettanto segreto, relativo alla privatizzazione dei servizi (scuola, sanità, trasporti, ecc.).

A questo punto è necessario che venga esplicitata l’opinione di chi scrive: noi non siamo contro l’Euro. La moneta unica europea avrebbe potuto essere, ed ancora è in tempo per esserlo, uno strumento nuovo di regolazione degli scambi internazionali, quale moneta della più forte economia mondiale. Avrebbe potuto diventare la moneta di riferimento del commercio internazionale, purché le sue regole (Trattato di Maastricht) fossero state conseguenti a questa funzione e la banca che ne dirige il sistema fosse in possesso di tutti i requisiti propri delle banche centrali di ogni nazione titolare della sua moneta. Così in Europa, purtroppo, non è.

Pertanto, allo stato degli atti, con un’Europa che politicamente non esiste, con una moneta che non rappresenta un sistema istituzionale politicamente definito e gestita da una banca centrale solo di nome a non di fatto, con un sistema economico e finanziario che segue le indicazioni dei gruppi di pressione come testimonia la ricerca del Ceo di cui sopra, sistema che produce disoccupazione diffusa, stagnazione produttiva e dipendenza dalle strategie atlantiche e recentemente anche l’ostracismo verso gli stranieri (Merkel docet), non sappiamo proprio che farcene.

Allora, o si imposta una politica di radicale cambiamento delle regole europee a partire da un assetto istituzionale unitario – con meno sprechi e più efficienza democratica (centralità del Parlamento europeo), approntamento di una strategia globale (politica estera) e sistema di difesa indipendente (fuori dalla Nato) nonché dignità dell’autonomia europea, cioè non essere succubi dei diktat statunitensi nei rapporti internazionali (vedasi sanzioni antirusse per la questione Crimea, Siria, Palestina, Gaza, Libia) e quant’altro – o di quest’Europa e della sua moneta-killer posiamo farne di sicuro a meno.

L’Europa che vogliamo non può, né deve, essere anti nessuno, anzi pro tutti; non deve avere rapporti privilegiati con chicchessia, né particolari vicinanze, perché queste, specie quando sono troppo strette, ti soffocano e ti uccidono.

Sull’argomento abbiamo chiesto l’opinione all’economista palermitana, Lidia Undiemi – che sappiamo essere alle prese con il completamento di un suo lavoro editoriale – che di seguito proponiamo.

“Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – ci dice Lidia Undiemi – è stato presentato alle masse come fondo ‘salva-Stati’, ma in realtà si tratta dell’istituzione di una organizzazione finanzaria internazionale molto simile al Fondo monetario internazionale (Fmi), sia per struttura che per scopi. Più in particolare, il Mes è stato realizzato per garantire la stabilità finanziaria della zona euro”.

“Verrebbe da pensare – aggiunge l’economista siciliana – così come d’altronde sostenuto da molti, che la crisi finanziaria della zona euro riguardi direttamente la sostenibilità del debito pubblico. La stabilità cui si riferisce il trattato Mes riguarda, invece, il settore della finanza privata, ed infatti il Mes è stato utilizzato per salvare le banche dei Paesi periferici, che a sua volta avevano una esposizione debitoria, guarda caso, nei confronti delle banche tedesche”.

“Non esiste dunque alcun fondo ‘salva-Stati’ – sottolinea Lidia Undiemi – semmai ‘salva-banche’. E chi salva le banche? I salvataggi vengono realizzati a spese della collettività. L’Italia e gli altri Paesi che adottano l’euro partecipano all’organizzazione Mes versando delle quote di partecipazione, che per il nostro Paese ammontano a 125 miliardi di euro. Ad ottobre 2013, segnala la Banca d’Italia, i prestiti agli Stati membri dell’UEM (bilaterali o attraverso EFSF) ammontano a 42.913.000 euro, mentre il contributo al capitale del Mes è pari a 11.465.000 euro per un totale di 54.378.000 euro!”.

“Questi contributi – aggiunge l’economista – pesano chiaramente sul debito pubblico lordo dei singoli Paesi aderenti. Questo dimostra che il debito pubblico non è certamente il problema principale dell’Europa. Non solo, dunque, gli aiuti europei pesano, e non di poco, sui nostri conti pubblici, ma ai cittadini viene inoltre chiesto di pagare la crisi con le politiche di austerità e con le ‘riforme’. Gli Stati salvano i mercati, i mercati impongono di fatto i sacrifici alle popolazioni. L’economia qui c’entra poco, si tratta di pure scelte politiche volte a tutelare determinati centri di interesse”.

 

 

 

Riccardo Gueci

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