Fiori di campo, l’ecovillaggio nato da un bene della mafia «L’esperienza qui genera sempre un certo cambiamento»

Chi passa da quel fazzoletto di terra tra il mare e la ferrovia, dopo non è più lo stesso. Si porta inevitabilmente dentro attività, esperienze, condivisioni, nomi e storie che lì ha raccolto e fatto sue. Per lasciarle germogliare dentro e raccoglierne, poi, i frutti. È questo l’effetto che fa passare qualche giorno dentro Fiori di campo, l’ecovillaggio solidale nato dalle rovine abbandonate di un bene tolto alla mafia. Un luogo votato all’accoglienza e alla portata di tutti. Sorge a Marina di Cinisi e a disposizione ha circa un ettaro di terra, tra i viali alberati e la vegetazione mediterranea che lo rendono un posto unico. Dove associazioni, comunità, famiglie e soprattutto ragazzi scoprono un mondo nuovo, sullo sfondo dei temi della legalità, dell’impegno sociale e della sostenibilità ambientale che si affrontano durante il soggiorno. «Perché chiamarlo Fiori di campo? È una poesia di Peppino Impastato, tanto per cominciare», dice subito l’educatrice Ornella Tirone, che in quel bene ci vive e lo gestisce.

«Quando la cooperativa Libera Mente, di cui faccio parte, nel 2012 ha preso in gestione il bene dal Comune di Cinisi, uno dei primissimi contatti è stato con Giovanni Impastato e Casa Memoria – racconta -. Come non scegliere quel nome? Da un lato c’erano tutti quei fiori spontanei che crescevano in un luogo che per anni era stato abbandonato, dall’altro eravamo praticamente nel territorio di Peppino, volevamo dare risalto a questo e da qui è cominciato tutto, è ripartita la nuova vita di questo posto». All’inizio le prime attività organizzate dentro al bene recuperato sono i campi estivi di volontariato e formazione organizzati coi progetti promossi da Libera. Poi la progettazione nel tempo si è allargata arrivando a coinvolgere le scuole di tutta Italia, cercando di fare passi in avanti. «All’inizio era solo un bene confiscato e in cui si parlava solo di antimafia. Finché, piano piano, abbiamo trasformato Fiori di campo da semplice luogo tolto alla mafia a comunità educante – dice Ornella -, facendo sì che l’esperienza di questi ragazzi che per alcuni giorni vivono qui in comunità faccia poi la differenza. Qui si riappropriano del bene confiscato, conoscono storie e hanno la capacità di capire cosa voglia dire impegnarsi, essere responsabili, insomma acquisire competenze di cittadinanza attiva».

Dentro Fiori di campo, insomma, i giovanissimi soprattutto sperimentano cosa vuol dire essere una comunità, «perché poi possano tornare nei loro territori con maggiore consapevolezza di quella che è stata una delle pagine più brutte della nostra storia, non soltanto siciliana ma in generale italiana – continua -, e non solo dal punto di vista del fenomeno mafioso e del suo contrasto, ma anche rispetto a cosa voglia dire impegnarsi a livello generale nell’essere cittadini attivi e responsabili». Non solo mafia e antimafia, inoltre. Ma un’esperienza che mette tutti a contatto diretto con le criticità e le bellezze di un territorio unico. «Cerchiamo di dare degli strumenti ai ragazzi, non è semplicemente un progetto o una gita scolastica, è un tassello in più che gli permette di prestare la giusta attenzione a quello che sta accadendo oggi, a quello che è accaduto 40 anni fa in Sicilia, a capire i meccanismi mafiosi e i collegamenti che oggi legano colletti bianchi e organizzazioni criminali, tutte cose di cui molti giovanissimi sanno ancora poco e di cui nessuno gli ha mai parlato prima». Prima di mettere piede dentro Fiori di campo, almeno

Quando il soggiorno volge al termine e arriva il momento di salutarsi, viene sempre chiesto ai ragazzi di lasciare una sorta di feedback della loro esperienza, scrivendo una pagina di diario su quanto vissuto nel bene di Marina di Cinisi, per capire cosa gli sia rimasto e come sia stato per loro vivere in comunità. «Per la maggior parte dei casi il riscontro è positivo – racconta ancora Ornella -, segnalano tutti le difficoltà del vivere insieme rispettando lo spazio dell’altro». Le camere si dividono nelle quattro villette che costituiscono il bene. Ma è soprattutto all’esterno degli appartamenti che si svolgono le più svariate attività: dal ripristino del bene confiscato ai laboratori sul riuso e riciclaggio, e i lavori di pubblica utilità, l’animazione territoriale, il lavoro sui terreni agricoli, la formazione sui temi della legalità, la creazione di eventi aperti alla cittadinanza e partecipazione a iniziative anti-mafia. 

«Quello che gli rimane maggiormente sono le testimonianze sia dei famigliari di vittime di mafia sia dei sopravvissuti alle stragi, questo rimane sempre. E poi il contatto con noi della cooperativa – rivela Ornella -, io vivo qui, quindi sono con loro praticamente dalla sveglia alle 7 fino a sera quando si va a dormire. Entrano quindi in rapporto con noi, spesso ci chiedono quali sono le difficoltà di gestire e portare avanti un bene confiscato. Dopo l’esperienza comunque avviene sempre un cambiamento in loro, o perché vogliono fare qualcosa nel loro territorio o perché vogliono cambiare alcuni loro comportamenti. Ma, appunto, c’è sempre un cambiamento, in qualche modo». Un cambiamento che, simbolicamente, parte da un luogo per anni simbolo di una realtà criminale che, invece, nega ogni progresso, ogni sussulto di civiltà. Solo il 30 per cento dei beni al momento è riutilizzato in Italia. Quanto altro preziosissimo cambiamento potrebbe essere ulteriormente generato se questa percentuale fosse solo un po’ più alta?

Silvia Buffa

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