Oltre quattrocento pagine per spiegare cosa c’è dietro quella formula: «Assoluzione perché il fatto non sussiste». Sono state pubblicate le motivazioni della sentenza che lo scorso 17 ottobre ha assolto gli otto imputati nel primo processo per le presunte violazioni ambientali nell’ex facoltà di Farmacia di Catania. Sul banco degli imputati, in un procedimento che ha segnato la storia di un’istituzione come l’università etnea, Antonino Domina (ex direttore amministrativo dell’Ateneo), Lucio Mannino (allora dirigente dell’ufficio tecnico), Giuseppe Ronsisvalle (preside dell’ex facoltà di Farmacia dal 1996 al 2009), Fulvio La Pergola (allora responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi), Franco Vittorio (direttore del dipartimento di Scienze farmaceutiche) e i tre membri della commissione sicurezza Giovanni Puglisi, Francesco Paolo Bonina e Marcello Bellia (medico del lavoro). Un’assoluzione che ha sorpreso l’accusa come le parti civili e della quale oggi vengono rese note le ragioni.
«Si sono fronteggiate due contrapposte fonti di prova», scrivono i giudici Ignazia Barbarino (presidente del collegio), Santino Mirabella e Giancarlo Cascino. Da una parte le dichiarazioni dei testi dell’accusa, tra le quali viene sottolineata anche quella postuma tratta dal memoriale di Emanuele Patanè. Dall’altra le prove acquisite. Ci sono i racconti che «depongono univocamente per l’esistenza di un ambiente lavorativo caratterizzato da odori molesti, irritanti, con punte di percezione in taluni frangenti più che sospette e allarmanti, al punto da costringere pure uno degli imputati, il prof. Ronsisvalle, a seguito della percezione personale, a chiudere il laboratorio». Dichiarazioni di un «pregresso sicuro sversamento incontrollato, sino a fine anni ’90, negli scarichi dei lavabi delle sostanze e residui di lavorazione» alle quali fanno da contrappunto altre testimonianze «palesemente di convenienza, fastidiosamente accomodanti (tra queste quelle rese dai professori Salerno, Prezzavento e Pappalardo) dei docenti strutturati del dipartimento». I quali – non potendo smentire i racconti di altri colleghi in pensione o del personale tecnico, così come la propria presenza nelle riunioni in cui venivano discussi i problemi della struttura – hanno minimizzato la questione come «sensazioni solo di altri, da parte loro non preoccupanti, o incredibilmente ricondotte a personali “fattori emozionali”». Testimonianze, queste ultime, descritte dai giudici come «poco fedeli».
E poi ci sono i riscontri scientifici, «il cui esito non riscontra o conforta quella dichiarativa». Una condizione tale che non permette di «ritenere processualmente acquisito il dato dell’esistenza di una situazione di inquinamento ambientale che, trovando la propria manifestazione nella provata contaminazione del terreno sottostante l’edificio 12 (adesso edificio 2, ndr) si sviluppava nella immissione di vapori tossici e nocivi nella matrice aria all’interno dei locali adibiti a laboratori e segreteria nel vano seminterrato».
Per quanto riguarda la responsabilità della cura della sicurezza nel posto di lavoro, il collegio ripercorre la normativa in materia, accostandola anche all’organigramma dell’università per individuare le figure di riferimento. Ossia il rettore (all’epoca Ferdinando Latteri, morto nel 2011, la cui posizione è stata stralciata), il direttore amministrativo Domina, il responsabile del servizio prevenzione e sicurezza La Pergola, il medico Bellia e il capo ufficio tecnico Mannino. Ma secondo la corrente interpretazione «da un punto di vista prevenzionale, risultano privi di responsabilità penale diretta». Stessa valutazione anche per la commissione permanente e per il suo presidente, l’allora direttore del dipartimento Vittorio. Ma tutto questo, precisano i giudici, «non esclude la responsabilità degli imputati». Anche perché il pm, nel procedimento, non ha ipotizzato reati in materia di prevenzione contro infortuni sul lavoro e sicurezza sui luoghi di lavoro.
Sul fronte del disastro ambientale colposo, stabilirne esistenza e responsabilità dipende dalla possibilità di provare la contaminazione. «La complessa istruttoria dibattimentale – spiegano i giudici – non ha fornito, ad avviso del collegio, prova piena, incontrovertibile, della esistenza di tale imprescindibile dato fattuale». Accusa e parti civili hanno sempre sostenuto che l’incidente probatorio è avvenuto nel 2009, in uno scenario mutato rispetto alle condizioni nelle quali si trovava nel periodo preso in esame nel procedimento (2004-2007): rifacimento dell’impianto fognario, rimozione di terreno (smaltito come non contaminato), sistemazione dell’impianto di areazione ne avrebbero alterato la condizione, tanto da farla definire da Elisa Neri – ingegnere della It group, l’azienda specialista in materia ambientale convocata dall’ateneo per risalire alle cause dei problemi i risolverli – come «una vera e propria “bonifica”».
I giudici prendono così in esame lo stesso materiale di partenza prodotto tra il 2005 e il 2006 dall’azienda lombarda. Dai primi audit condotti dai tecnici, «si evince uno stato di probabile contaminazione della matrice terreno». A causarla «l’accidentale attività di scarico di sostanze chimiche/detergenti speciali all’interno delle condotte fognarie dei vari dipartimenti, eseguita in passato». Un’usanza che avrebbe «accelerato il fenomeno di deterioramento delle tratte di condotte fognarie». Tra le proposte della It figurano così la chiusura dei locali ritenuti più critici, la messa in sicurezza d’emergenza e la realizzazione di un monitoraggio in aria ambiente. Questo viene effettuato nel febbraio 2006. Lì si rileva «la presenza di “sostanze organiche volatili”, in questo momento “non identificate”». Così, concludono i giudici, «nel febbraio 2006, nessuna prova certa di sicura contaminazione del terreno sottostante l’edificio 12, può dirsi indiscutibilmente acquisita».
«Non può dirsi acquisita prova certa della contaminazione del terreno sottostante l’edificio 12 e in definitiva dei reati ipotizzati dal pm che tale contaminazione assumono, e imprescindibilmente presuppongono», ribadiscono Barbarino, Mirabella e Cascino. Una condizione che sembra così collidere con le testimonianze rese in aula. «Certo – concede il collegio – ciò non esclude affatto l’esistenza di odori molesti, sgradevoli, irritanti e senz’altro pregiudizievoli per la salute dei frequentanti l’istituto. Ma permane l’irrisolto interrogativo, pure all’esito della complessa e articolata istruttoria dibattimentale, della fonte e origine di tali esalazioni».
La tesi dell’accusa («contaminazione dell’intero terreno sottomesso e risalita di vapori dal vespaio sottostante i pavimenti») «deve confrontarsi con ulteriori e non irragionevoli ipotesi». E tra quelle suggerite dai giudici ce ne sono alcune, come la propagazione nell’aria di esalazioni residue non correttamente smaltite dall’impianto di areazione, il rilascio di odori dal sistema fognario non sigillato. O la più grave «risalita dagli scarichi di sostanze ancora illecitamente sversate». Ipotesi «con configurazione di responsabilità sul punto che comunque, anche per il “non impedimento”, non superano la soglia di differenti reati in materia di prevenzione di infortuni e sicurezza sui luoghi di lavoro, non ipotizzati nel presente processo penale». I giudici cioè sottolineano che si tratterebbe di colpe tali da non sfociare in eventuali procedimenti penali.
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