Agata Annino sta terminando il suo dottorato di ricerca in Scienze farmaceutiche quando un mal di testa lancinante le fa scoprire di avere un tumore al cervello. E’ il 23 febbraio 2003 e quella data i suoi genitori non riescono a dimenticarla. Nel giro di un anno e mezzo, dopo due interventi chirurgici e cicli di chemioterapia interminabili, Agata muore. Di quel devastante dolore ha parlato la madre, Maria Lopes, durante l’udienza del processo per disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata all’interno dellex facoltà di Farmacia di Catania. «Mi devo fare forza, non riesco a parlare di mia figlia senza piangere», sussurra la signora Lopes mentre nell’aula del Tribunale etneo cala un silenzio carico di tormento. Agata dopo la laurea in Chimica e tecnologia farmaceutiche ottiene un dottorato di ricerca sempre all’interno dell’ateneo di Catania. Dal 1991 al 2002 frequenta l’edificio 2 della Cittadella, quello che è stato denominato il laboratorio dei veleni. «Vedevo i camici usurati dagli acidi – racconta la madre – Spesso mi chiedeva guanti in lattice».
Nel periodo del dottorato, quando segue un gruppo di tesiste, la giovane raccomanda loro costantemente di rimanere sotto le cappe di aspirazione. Lavora ad uno studio per la ricerca di un vaccino antitumorale, per questo frequenta i locali universitari anche oltre l’orario di chiusura. Dopo la scoperta del tumore al cervello, Agata s’imbatte in una pubblicazione della professoressa Alba Brandes: secondo lo studio della ricercatrice, esperta internazionale di oncologia, l’incidenza di tumori è maggiore nelle persone tra i 20 e i 40 anni esposte ad agenti chimici o solventi. «Forse questa malattia me la sono presa là dentro», confida Agata alla madre. Nonostante tutto, affronta la quotidianità con coraggio: «Questa malattia si vince con la positività», sostiene fino alla fine. Prima di morire, il 3 giugno 2005, la giovane riesce a sostenere l’esame finale di dottorato e ad affidare la sua ricerca ad un collega. Al padre Olindo, andato a ritirare la pergamena, in segreteria rivolgono un commento agghiacciante: «Prima li fanno morire, poi gli danno la laurea».
I genitori di Agata non sapevano le condizioni in cui la figlia e gli altri studenti e lavoratori operavano ogni giorno. Persone senza alcun problema di salute. Come un’altra delle presunte vittime di quei laboratori, Emanuele Patanè. Grazie al memoriale scritto dal giovane durante la malattia, è stato possibile avviare le indagini e istituire i procedimenti in corso (quello per omicidio colposo attende solo l’avviso di conclusione delle indagini). Il padre Alfredo racconta del calvario lungo un anno e mezzo affrontato dopo la scoperta di un tumore ai polmoni. E poi gli abiti che odoravano «di ruggine e acido», le lamentele sulle cappe non funzionanti, l’assenza di guanti e mascherine che puntualmente era costretto a portare da casa. La beffa finale è l’esclusione dal concorso per il quale era l’unico partecipante, dunque vincitore. «Nessuno gli dava ascolto», spiega Patanè. Da qui l’esigenza di mettersi al lavoro su quelle pagine. Il pc, acquisito come prova, è stato esaminato da un perito che ha garantito l’assenza di manomissioni: Emanuele ha finito di scrivere il 27 ottobre 2003 negli Stati Uniti, dove si trovava per cercare una cura al male che lo avrebbe stroncato di lì a pochi giorni. Collega e amico di Agata, Emanuele al padre raccontava il clima che si respirava in facoltà. «Erano tutti consapevoli di quello che succedeva là dentro».
Il racconto dei genitori di Agata Annino ed Emanuele Patanè viene confermato da un’altra ex studentessa della facoltà catanese, Sara Schiavolena. Laureata nel 2009, frequenta i corsi e i laboratori dal 1995. «Utilizzavamo camici normali. Non usavamo né guanti né occhiali». Anche lei racconta degli odori pungenti provenienti dagli scarichi nei quali versavano i contenuti delle provette. Contenitori che venivano lavati negli stessi lavandini. «Era una sensazione provata da tutti – afferma l’ex allieva – Stando là per delle ore ci si abituava».
Nel corso dell’udienza testimonia anche Fortunata Milluzzo, madre di Agostino Agnone, un giovane laureato in Ingegneria – i cui corsi avevano sede in uno stabile vicino all’edificio 2 – morto nel maggio 2009 per un tumore al rene. La donna racconta che il figlio inizia le prime cure proprio nei giorni in cui scoppia il caso Farmacia. «Forse è per questo che si respirava aria pesante», le dice il ragazzo che – spiega la madre – non sarebbe il solo studente della facoltà a morire in quel periodo per una patologia simile.
Con le testimonianze odierne si è quasi concluso anche l’esame dei teste delle parti civili. Quella di oggi è stata la prima udienza del nuovo giudice a latere Santino Mirabella che sostituisce Cinzia Sgro, la componente del collegio venuta a mancare lo scorso 23 gennaio. Scongiurato il rischio di vedere cadere in prescrizione i reati di cui gli imputati sono accusati visto che – con il consenso delle parti – si procederà alla lettura dei verbali e non ci sarà bisogno di riprendere daccapo l’intero procedimento. Nel caso in cui ve ne fosse bisogno, il presidente Ignazia Barbarino si è detta disponibile a risentire qualche teste tra quelli più importanti alla fine della fase istruttoria.
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