Fare teatro a Catania senza le istituzioni Orazio Condorelli: «Questione di qualità»

C’è chi va avanti senza clamori, armato solo di testardaggine e passione. C’è chi si lascia guidare dal proprio intuito, addirittura facendo della povertà dei mezzi una generosa fonte d’ispirazione. Orazio Condorelli, autore e regista teatrale che vive e lavora a Catania, è tra questi. Una voce controcorrente. Dopo una laurea in Giurisprudenza, decide di dedicarsi esclusivamente al teatro. Inizia, quasi per gioco, al Gapa, associazione di volontariato che opera da anni con bambini, ragazzi e famiglie nel quartiere San Cristoforo a Catania.

Una scena dello spettacolo Librino, per la regia di Orazio Condorelli, con l’attore Luciano Bruno

Nel 2009 scrive e dirige lo spettacolo Librino, con l’attore Luciano Bruno, mettendo in scena la vita nelle periferie. L’opera è una rivelazione: viene segnalata al prestigioso Premio speciale Ubu e vince il primo premio al festival internazionale Mediterranean Experiences. Da allora il teatro è diventato il suo pane quotidiano. L’ironia e la forza dissacratoria unite a momenti di poesia fanno dei suoi spettacoli delle sperimentazioni stimolanti in un teatro catanese spesso addormentato.

Qual è il tipo di ricerca che fai quando inizi a lavorare su un testo? Come trovi le idee, le ispirazioni e infine le rielabori in un copione?
«Quando lavoro su un testo scritto da altri solitamente faccio un’operazione di riscrittura. Creo prima un canovaccio e poi utilizzo una grammatica teatrale che consente di aprire continue finestre al suo interno, e questi spazi vuoti sono destinati ad essere riempiti dalle improvvisazioni migliori. Nel mio modo di lavorare l’improvvisazione ha un ruolo fondamentale, ma solo durante le prove, sulla scena invece tutto è previsto, anche l’imprevisto».

Questo vale per i lavori che hanno avuto un testo classico come punto di partenza. Ci sono anche quelli, e mi riferisco agli spettacoli con l’attore Luciano Bruno, che sono totalmente frutto della vostra creatività.
«In quel caso il percorso è stato diverso. Quel teatro nasce dalla necessità, dall’urgenza di Luciano di raccontare un pezzo della sua vita, un’azione necessaria per lui e per coloro che lo sono stati e lo staranno ad ascoltare. Per quanto riguarda Librino, credo che il suo racconto abbia qualcosa di universale, perché racconta delle periferie e non soltanto di quelle catanesi. Assieme a Giuseppe Scatà, col quale ho collaborato per la creazione dello spettacolo, mi sono fatto raccontare delle storie di vita vissuta,e le abbiamo riscritte. Poi è avvenuta la fase del montaggio, in cui abbiamo lasciato anche spazio all’immaginazione. Perché per me il teatro non deve essere una riproduzione fedele del mondo, non deve essere vero, ma verosimile. Il teatro documentaristico, civile, ideologico, non mi interessa».

Lo spettacolo Io+te=Amore, riscrittura di Romeo e Giulietta

Quindi il tuo non lo definiresti un teatro sociale?
«No, non lo considero un teatro sociale perché ho sempre cercato di fare un teatro di qualità. Non voglio essere frainteso: questo non significa necessariamente che quello che faccio sia bello, o che piaccia a tutti, anzi. Ma significa che si deve sapere esattamente cosa fare sulla scena. Se il teatro è fatto bene e fino in fondo, allora può avere anche delle valenze sociali. Ma dire che il teatro che faccio è teatro sociale significa limitare le potenzialità che il teatro ha di per sé».

A Catania c’è un tradizione teatrale istituzionalizzata e poi c’è chi tenta di fare teatro indipendente. A meno di un anno fa, per esempio, risale l’occupazione del teatro Coppola. Che cosa vuol dire fare teatro indipendente a Catania? Quali sono i limiti e le ispirazioni che una città come questa ti ha dato?
«Nonostante sia innegabile che di difficoltà ce ne siano tante, mi sembra che in questa città qualcosa si stia muovendo e l’esperienza dell’occupazione del teatro Coppola ne è un esempio. Dal canto mio, ho sempre cercato di scavalcare qualsiasi tipo di intermediazione con le istituzioni, con i politici di turno, con i teatri stabili, facendo il mio teatro, quello che avevo voglia di costruirmi, di inventarmi. Questa è la mia esperienza, probabilmente molti miei colleghi non saranno d’accordo. Però credo che se tu hai veramente qualcosa da dire, lo spettacolo gira ovunque. Di Librino abbiamo fatto decine e decine di repliche e lo abbiamo messo in scena anche in strada o in luoghi non convenzionali».

Ma fare questo tipo di lavoro a Catania cosa significa?
«Forse è un vantaggio, proprio perché è un limite. Nel nostro lavoro non bisogna mai essere felici, altrimenti ci si adagia e si fanno delle cose che sono già state fatte, o da altri o da te stesso, finendo per replicarti. Probabilmente, più sono le difficoltà più mi diverte fare teatro. E assicuro che, da queste parti, il divertimento è assicurato!».

Ci sono dei temi che ti interessa particolarmente indagare?
«Sto cercando di capirlo, ma guardando quello che ho fatto finora forse quello che mi interessa di più sono le marginalità, la difficoltà di stare a questo mondo. Ciò che mi appassiona di più è la persona che sta sulla scena, e per fare ciò non ho bisogno di grandi mezzi. Sono per un teatro povero, come direbbe Grotowski. L’arte teatrale è un’arte fortunata da questo punto di vista, perché non necessita di grandi mezzi per poter dire delle cose, la cosa più importante è che tu abbia qualcosa di nuovo da dire, una nuova canzone da cantare, un nuovo passo da danzare».

Un’immagine dello spettacolo Ofelia, con le mamme degli alunni della scuola di San Giorgio

Qualche mese fa hai messo in scena una riscrittura dell’Amleto all’interno di un laboratorio con le mamme dei bambini della scuola San Giorgio di Catania. Qual è il bilancio di questa esperienza?
«Da anni lavoro nella scuola di San Giorgio con queste signore straordinarie. Quest’anno abbiamo lavorato sulla figura di Ofelia, e questo è stato il pretesto, il punto di partenza, per poter raccontare della vita sentimentale di queste donne, della rabbia e della gioia del vivere e della sete costante dell’altro. Mi insegnano sempre che bisogna lottare per ottenere dei risultati anche quando tutto sembra viaggiare in direzione contraria».

Pensi che il teatro possa avere un’influenza sulla società?
«Non credo, non penso che il teatro abbia un’utilità o un effetto diretto sulla società. Però penso che possa modificare chi lo attraversa, in meglio. E poi, soprattutto, credo profondamente in quello che faccio, al di là di qualsiasi crisi, al di là di qualsiasi ostacolo oggettivo e anche al di là di qualsiasi progetto di carriera. Mi piace ricordare Bakunin quando diceva che bisogna ricercare l’impossibile per realizzare il possibile, perché chi si è saggiamente fermato a ciò che gli appariva possibile non è avanzato di un solo passo».

[Foto di Luigi Marino]

Gaia Raffiotta

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