È stato e continua ad essere un protagonista della storia d’Italia. Ha vissuto sulla sua pelle ciò che noi, oggi, siamo abituati a leggere sui libri di storia: la guerra, i movimenti di liberazione e quelli sindacali, la formazione dell’Italia repubblicana e l’Italia di oggi. Un testimone diretto del secolo scorso, impegnato in politica soprattutto per la difesa del Mezzogiorno, suo vessillo, ma anche uomo di cultura e di scrittura, che ha anche ricoperto il ruolo di direttore de L’Unità. Abbiamo colto l’occasione della consegna della laurea honoris causa al senatore per intervistarlo.
Una parte dei giovani del Pd si ribella alla parola “compagni” retaggio di una storia che non sentono loro. Che ne pensa? E’ giusto tagliare tutti i ponti col passato? Che valenza ha, oggi, questa parola?
«Io sono per mantenere questa parola. Chiamarsi compagni significa essere compagni non solo nei valori, negli ideali, ma anche nella solidarietà. Un partito deve essere qualcosa che unisce le persone. Significa sentirsi dalla stessa parte, sentirsi nella stessa corrente per costruire qualcosa. Chi non vuole usare questa parola non la usi, ma io credo che abbia ancora un senso».
Beppe Lumia e il partito democratico del Sud. È una giusta esigenza di radicarsi sul territorio o solo trasformismo per ottenere poltrone?
«Il radicamento avviene se un partito riesce ad interpretare i problemi sociali, civili culturali e sciogliere le contraddizioni che determinano situazioni gravi. Il rapporto col popolo lo risolvi se capisce che tu affronti e risolvi i problemi che lo travagliano, perché quando si dice:” sto col popolo”, sì va bene, ma bisogna vedere cosa dici al popolo, non basta starci. Bisogna vedere cosa dici, se sono cose credibili,se sei una persona affidabile, se hai un progetto, una prospettiva in cui le persone si ritrovano. La politica è questo, è la capacità di esprimere ed interpretare esigenze grandi, vaste, e collegarle con le esigenze minute della popolazione».
Che differenza c’è tra la convergenza attorno all’autonomismo di Lombardo e il milazzismo?
«Non c’è nessuna convergenza. Sono passati più di 50 anni, c’era un altro mondo, un contesto totalmente diverso, partiti diversi. L’autonomismo bisogna ritrovarlo nella realtà dell’oggi, si ripropone di volta in volta in rapporto a quelli che sono i problemi, è inutile guardare al passato, bisogna guardare al domani, quindi bisogna capire, oggi, questa regione, questa autonomia, che cosa può dare al popolo siciliano? Questa è la domanda. Io non credo che la regione così com’è possa dare un risposta, non solo per come è governata, ma per la struttura che ha. Bisogna riformare la regione, bisogna ridare all’autonomia il senso che aveva e cioè quella di una battaglia per dare alla Sicilia e al popolo siciliano gli strumenti per la sua rinascita, di oggi e non di ieri».
Senatore, al di là delle riforme, la Sicilia ha anche bisogno di liberarsi dal potere mafioso. Salvatore Lupo non ritiene credibile la tesi di Massimo Ciancimino : «Penso che il patto tra Cosa Nostra e lo Stato sia nel complesso una grande bufala». Lei cosa ne pensa? Ritiene credibile che ci siano stati contatti, o interessi comuni, tra la mafia e il nascente partito di Forza Italia con mediazione di Marcello Dell’Utri?
«I problemi di questo tipo li deve vedere la magistratura e non io, però il problema del rapporto della mafia con il potere politico è un problema storicamente consolidato. Che si siano rotti, spezzati questi fili non lo credo. I processi si fanno sulle responsabilità individuali, perché altrimenti non ci sono garanzie, le analisi invece le deve fare la politica, è lei che deve dire come stanno oggi le cose. Io non credo, a questo proposito, che il problema della mafia sia stato risolto, perché fino a quando ci sarà un rapporto tra la mafia e i poteri, la mafia avrà questa influenza in tutta la società».
Il “laboratorio politico” siciliano anticipò in qualche modo il compromesso storico nazionale. Il protagonista di quella politica fu Achille Occhetto (all’epoca neosegretario regionale siciliano) che “aprì” agli imprenditori come “forze sane” e “produttive” del capitalismo isolano. Purtroppo, però, erano gli stessi imprenditori che Fava individuò poi come “cavalieri dell’Apocalisse mafiosa”. Lei era già a Roma ma approvò quella scelta politica?
«Io credo che Occhetto abbia interpretato, o abbia cercato di interpretare quella che era già la politica del ’76, cioè la ricerca di equilibri, di rapporti nuovi, anche con la democrazia cristiana. Io penso che lui vagliò una cosa molto pesante per quello che io so e lo dissi anche a lui. Alla regione il rapporto venne avviato con una persona, che era Piersanti Mattarella e con il gruppo che avevano. Fu il comune di Palermo a tentare di fare un compromesso con chi aveva governato e governava, e quello è stato un errore grave. A Palermo non si poteva fare, non si doveva fare perché il sistema politico mafioso a Palermo era ancora al centro della vita pubblica. Lì fu l’errore, si fece questa applicazione, quindi, senza guardare ai contesti in cui si realizzava».
Giovani e diritti al sud: disoccupazione alle stelle, una fetta consistente di futura classe dirigente che se ne va al nord o all’estero in cerca di un lavoro dignitoso. Ci sono alternative? Ha ancora senso parlare di “questione meridionale”? Qualcuno ha anche detto che non serve più neanche emigrare. Cosa rimane da fare?
«Io do solo un consiglio: fate politica, organizzatevi, fate le battaglie dentro i partiti, fate in modo che le idee nuove si consolidino e si rafforzino. Questo possono farlo solo i giovani, dovete fare battaglia politica, certamente rimanendo al sud».
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