Far ridere parlando di malattia mentale? Si può fare

Sorprende Si può fare, il film di Giulio Manfredonia con Claudio Bisio, perché a far divertire non sono combriccole di scalmanati giovani e meno giovani in vacanza a Rio, o improbabili maestri zen in meditazione al Polo Nord, ma un gruppo di malati mentali, ispirati a protagonisti di tante piccole storie vere, che non risultano mai caricaturali.

Sono infatti i matti, interpretati da attori professionisti poco conosciuti, ma brillanti nel dare vita a personaggi incredibilmente reali, capaci di divertire e commuovere, i veri protagonisti della pellicola; i “normali” rappresentati da Nello (Claudio Bisio), la sua compagna Sara (Anita Caprioli) e i dottori Furlan (Giuseppe Battiston) e Del Vecchio (Giorgio Colangeli) fanno da spalla senza mai rubare loro la scena.

Il film racconta l’esperienza (reale) della Cooperativa Noncello di Pordenone, formata da persone con problemi psichici, nata in seguito alla chiusura dei manicomi – stabilita in Italia dalla legge 180/78 – per dare una professionalità agli ex pazienti che si trasformano in specialisti della costruzione del parquet. La storia dà lo spunto a Fabio Bonifaci per il brillante soggetto dell’opera, che mostra come sia stato difficile applicare correttamente il principio che aveva mosso Franco Basaglia a promuovere quella legge, ancor oggi oggetto di discussione.  La sua rivoluzione culturale e medica scaturiva dalla nuova visione secondo la quale il malato mentale non doveva essere considerato alla stregua di un individuo pericoloso da isolare, ma al contrario una persona della quale dovevano essere sottolineate, anziché represse, le qualità umane attraverso il lavoro e il mantenimento dei rapporti con la società. È proprio questo il nuovo approccio che decide di avere Nello nei confronti di quei particolari lavoratori decidendo di trattarli come uomini e donne con volontà e desideri. Si dà, così, il via ad un percorso che porta i malati a riappropriarsi della loro dignità e tutti, anche i sani, ad una ritrovata umanità e a ciò che questa comporta: sofferenza, emozioni, felicità.

La cooperativa in cui viene catapultato il personaggio di Claudio Bisio, molto credibile nel ruolo dell’ottimista e combattivo sindacalista le cui posizioni sono mal viste dai colleghi nella Milano degli anni ’80, è all’inizio del film un contenitore sociale diverso dal manicomio solo nella denominazione, ma non nel contenuto. Nello trova, infatti, un gruppo di persone intorpidite dalle massicce dosi di medicine, che pur condividendo lo stesso spazio rimangono isolate nelle manie, dubbi e tormenti causati dalla loro “diversità” e accentuati dai lavori manuali inutili ed alienanti che sono chiamati a svolgere, come quello di attaccare i francobolli.

Ed ecco la prima sorpresa: il medico che li segue, così come lo spettatore, uomini normali abituati alla “normalità”, pensano che i due addetti ad incollare sbaglino la posizione del francobollo perché matti, e quindi incapaci di fare un’azione nel modo “giusto”, fino a quando Nello scopre che, facendo scorrere velocemente le buste, quei francobolli in movimento creano un bellissimo disegno. E non è normale quel gesto che dimostra la volontà di evadere da una monotonia che ogni sano di mente troverebbe insopportabile? Sottile è, infatti, il confine tra il mondo dei malati e quello dei personaggi “normali”: le loro voglie, le loro manie, le loro sofferenze e disagi relazionali si confondono fino a diventare indistinguibili.

Così capita che lo spettatore si ritrovi a condividere le reazioni e i principi che spingono i malati ad agire e, anche quando il momento tragico arriva, non si riesce a dare la colpa alla pazzia, ma alla paura dei sani di mente non ancora pronti ad accettare il rientro nella società da parte di chi dalla società era rimasto escluso, domandandosi se c’è qualcuno che non si sente un po’ pazzo quando ama o soffre per amore.

Sorprende la trama che si snoda con semplicità tra risate e riflessioni e il poetico il parallelismo suggerito dal regista tra il risultato bello e perfetto che può nascere dalle “imperfezioni”, proprio come quei parquet fatti di mosaici creati con gli scarti, e la squadra di lavoratori capace di realizzarli formata da coloro che sono considerati gli scarti della società. Attraverso la loro storia Manfredonia dimostra che agire e vivere costituiscono la forma migliore di guarigione per tutti, ma non lo fa semplicisticamente senza ricordare che per aiutare davvero le persone con disturbi psichici si deve trovare il giusto compromesso tra l’inserimento attivo nella società, l’aiuto dei medici e la giusta dose di farmaci.

Il tema della malattia mentale è mostrato in tutti i suoi aspetti, dolore compreso, eppure Si può fare è una riuscitissima commedia che riesce a trasmettere un ottimismo che non risulta mai forzato. Il suo messaggio? Se si vuole si può fare, basta non restare con le mani in mano. “Quando uno dorme, bisogna svegliarlo!” dice uno dei protagonisti nel momento che costituisce il vero climax del film.

Agata Pasqualino

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