Caso di censura rientrato nel giro di ventiquattro ore per il giornalista agrigentino Nino Randisi, escluso dagli amministratori di Facebook ieri e riammesso oggi. A quanto pare, il software del social network più popolare al mondo, era andato in tilt per l’enorme mole di messaggi, video, testi pubblicati dal reporter. E quindi, in automatico, si era avviata una sospensione preventiva dell’account. Dunque nessuna censura contro l’impegno di Randisi contro la mafia, come invece aveva supposto il giornalista, allarmato, in un’intervista a Vittorio Zambardino sul suo blog di Repubblica: «Avevo 500 amici – ha scritto Randisi – ogni giorno pubblicavo video di YouTube sui latitanti più pericolosi. Mettevo materiali che scottano, tutta documentazione seria su argomenti importanti. E mi seguivano in molti. Adesso tutto quello che ho pubblicato finora è andato perso(…)hanno tolto qualche pagina su Riina, ma ne hanno lasciato altre dove si parla di mafia in tono elogiativo, e il mio spazio, che è una pagina contro la mafia, me lo disabilitano?»
Ma la denuncia dello sfortunato free lance, a dire il vero, aveva lasciato, da subito, qualche dubbio. Non sicuramente per certe forme di “ostacoli” che esistono, eccome, quando la materia trattata è Cosa Nostra, ma piuttosto per l’incertezza tecnologica in cui si sta ritrovando Facebook con il suo sistema di controllo. Strane cancellazioni, blocchi, tutto probabilmente causato dalla crescita a macchia d’olio che il social network sta vivendo nell’ultimo anno. Randisi ne ha fatto le spese, insomma, come chissà quante altre centinaia di persone, pardòn, account. Secondo Zambardino, a questo punto, converrebbe «stabilire una sede in ogni paese in cui [Facebook] è significativamente insediato, anche per avere un rapporto con le istitituzioni di quel paese, oltre che per rispondere alle sollecitazioni degli utenti che, come si vede, al minimo incidente si trovano a brancolare nel buio».
Eccolo il maggiore paradosso del network. Vero e proprio inno della comunicazione tra utenti, persone, “friends”, account; paradiso degli internauti di tutto il mondo; rete che collega, mette in contatto, fa relazionare individui da ogni angolo del pianeta, la piattaforma è sprovvista di un sistema concreto di amministrazione con cui “dialogare”, uno sportello informazioni per reclamare in caso di problemi. Chi si trovasse nella condizione di Nino Randisi, infatti, farebbe fatica ad avere delle risposte da parte dei gestori del sistema. E allora il caso Facebook apre l’annoso dilemma della privacy dei e nei social network laddove il materiale, faticosamente, accumulato dal giornalista, s’è perso in chissà quale ingranaggio del sistema. E visto che, come recita la pagina Wikipedia dedicata: «i contenuti pubblicati dagli iscritti (come fotografie, video e commenti) sono proprietà del sito, che è libero di rivenderli e trasmetterli a terzi, e di conservarli anche dopo la cancellazione degli utenti» – anche se – «l’utente ha comunque il diritto di chiedere informazioni in merito ai dati personali posseduti da terzi, al loro trattamento, di vietarne la pubblicazione, e di rendere definitiva la propria cancellazione dal sito», allora il dubbio sulla privatezza dei propri contenuti appare molto minata. Anche considerando il fatto che, solo dal febbraio dello scorso anno, il network ha dato la possibilità di disattivare, in maniera permanente, un profilo non più desiderato.
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