Fabrizio Pulvirenti, i riflettori su di lui dopo l’ebola «Se io fossi stato nero, sarei morto nell’indifferenza»

Lui tutte queste attenzioni non se le aspettava. Fabrizio Pulvirenti era partito con Emergency per fare il suo lavoro, l’infettivologo, non immaginava che a un certo punto della sua vita avrebbe passato il tempo a ricevere premi e a rilasciare interviste. Ma da quando ha contratto il virus ebola in Sierra Leone la sua faccia è su tutti i giornali. Prima ci si domandava se ce l’avrebbe fatta, se sarebbe sopravvissuto all’epidemia che stava sconvolgendo l’intero Occidente. Poi, quando — lo scorso 2 gennaio — la sua guarigione è stata ufficializzata, una sua affermazione — «Voglio tornare in Africa» — ha spinto tutti a chiedergli: «Quando?». La risposta che ha dato continuamente, anche a noi, è uguale: «Nel più breve tempo possibile, non appena le mie condizioni fisiche me lo consentiranno». Ci vorrà ancora un po’, ma poi tornerà dove si è ammalato, perché, dice, «alle epidemie si risponde con comportamenti organizzati e razionali, non certo fomentando le paure».

Abbiamo cominciato a sentire parlare di lei quando ha contratto il virus ebola. Ma facciamo un passo indietro. Come e quando è iniziato il suo impegno con Emergency?
«Il mio impegno in Emergency e, soprattutto, l’interesse per l’Ong è nato anni addietro allorché decisi di spendermi in attività umanitarie nei Paesi in via di sviluppo. La peculiarità di Emergency – che la differenzia da tutte le altre organizzazioni – è la «mission» di voler portare, attraverso la costruzione e la gestione di ospedali, il livello di assistenza sanitaria occidentale in quei Paesi. Io mi sono avvicinato a loro circa due anni fa: mi sono sottoposto al colloquio di selezione e nel mese di luglio sono stato chiamato per una missione in Kurdistan iniziata l’1 settembre; all’inizio di ottobre sono stato contattato per trasferirmi in Sierra Leone per lavorare al Centro ebola. Naturalmente ho subito accettato».

Dove si trovava di preciso? E di cosa si occupava?
«Ero a Lakka, a circa tre ore da Freetown, la capitale. Per i primi quattro, cinque giorni sono stato impegnato a imparare tutte le procedure e i protocolli di sicurezza: come vestirmi, come svestirmi, come ricevere i campioni di sangue. Da operatore sanitario mi sono occupato dell’assistenza ai pazienti ricoverati e da infettivologo ho dato il mio contributo nell’indagine epidemiologica che in quelle settimane abbiamo elaborato. E dalla quale è emersa la flessione della mortalità per ebola nel nostro centro a confronto con quanto registrato nel resto del Paese».

C’è stato un episodio specifico a seguito del quale ha contratto la malattia?
«Gli episodi possibili possono essere stati decine. A lungo abbiamo cercato di capire come e quando mi sono contagiato giacché sono sempre stato molto attento dentro la zona rossa; eppure non sono riuscito a identificare nessuna occasione potenzialmente responsabile del mio contagio».


Mentre lei era impegnato con Emergency, il terrore nei confronti dell’epidemia di ebola ha pervaso l’Europa. 
In Sicilia, meta favorita degli sbarchi dei migranti, la stampa ha fatto riferimento al fatto che le strutture ospedaliere isolane non sarebbero state in grado di reagire a un contagio. Lei cosa ne pensa? Crede che ci sia mai stato un pericolo reale?
«Francamente credo proprio di no. Io ho visto l’ebola da entrambe le sponde, da medico e da paziente, e posso dirle che le persone ammalate sono in condizioni davvero gravi, profondamente debilitate per poter affrontare i cosiddetti viaggi della speranza. Se anche uno o più iniziassero il loro viaggio già contagiati il tempo di incubazione è di tre settimane, periodo assolutamente inferiore al tempo necessario perché possano raggiungere le nostre coste. Inoltre la malattia da ebola inizia a essere contagiosa quando si manifestano i sintomi, non prima. Non so se le strutture dell’Isola, i due centri di riferimento di Catania e Palermo, siano o meno in grado di reagire a un eventuale (e improbabile) caso. Ritengo che le strutture assessoriali preposte, però, abbiano valutato adeguatamente la questione».

È un po’ come quando si parla di scabbia e malaria portate dai barconi: l’allarmismo viene facile. Lei lo trova giustificato?
«Naturalmente no, è ovvio. Strumentalizzare le malattie per fini più o meno politici a mio avviso è una condotta becera. Comprendo la paura di una patologia infettiva potenzialmente mortale, ma condanno fermamente la sua strumentalizzazione: alle epidemie si risponde con comportamenti organizzati e razionali, non certo fomentando le paure. Certo, alcune malattie infettive possono essere di importazione ma, le assicuro da infettivologo, che – per esempio – ho statisticamente visto più casi di importazione di malaria in soggetti che rientrano dalle vacanze piuttosto che in pazienti africani. E, comunque, proprio la malaria necessita di un vettore (una zanzara del genere Anopheles) che non esiste nel nostro territorio».

Ha dichiarato più volte che vuole tornare a lavorare in Sierra Leone. Lei è ormai immune dalla malattia. Come funziona l’immunizzazione?
«Spiegare la risposta immunitaria in termini semplici è pressoché impossibile. In linea generale, allorché veniamo a contatto con un microrganismo (virus, batteri, miceti, protozoi, ecc.), il nostro sistema immunitario elabora una serie di risposte che consentono di controllare nell’immediato l’infezione e di riconoscere quel dato agente se, anche a distanza di molto tempo, dovessimo contagiarci di nuovo. Purtroppo non sempre funziona in questo modo: così talvolta si hanno delle risposte immunitarie “esagerate”, altre volte inefficaci e, altre volte ancora, inadeguate perché i microrganismi (quali HIV ed Ebola) hanno sofisticati meccanismi di escape per eludere, appunto, la risposta immunitaria dell’ospite».

In Sierra Leone la gente di ebola muore. In Occidente, invece, si riesce a contrastare il virus e a batterlo. Si potranno applicare gli stessi protocolli anche all’Africa? Si applicano già?
«Ciò che abbiamo compreso sul campo è che il tempo gioca un ruolo determinante nel controllo della malattia. In altre parole: più si riesce ad allontanare la morte del paziente, maggiori saranno le possibilità di guarigione. Questo si ottiene sostanzialmente con le cure intensive e con la correzione dei parametri che si alterano: la reidratazione, il controllo della diuresi, la dialisi o la respirazione assistita. Sono questi gli interventi che consentono di allungare il decorso della malattia fino a quando il paziente riesce a contrastare l’infezione. In Africa, per la prima volta grazie a Emergency, si è cercato di curare i pazienti infetti da ebola. Nelle precedenti epidemie (ma, credo, anche in alcuni degli altri centri nel corso dell’attuale epidemia) si è soltanto proceduto con misure di contenimento del contagio. Un capitolo a parte sono i farmaci antivirali diretti, immunomodulanti o inibitori dell’ingresso del virus nelle cellule: molti di questi sono ancora in fase di sperimentazione e certamente, considerati i costi, non potranno essere impiegati in Africa».

Di ebola non si è parlato finché il contagio non ha varcato i confini del continente africano per arrivare negli Stati Uniti o in Europa. La comunità internazionale, a suo avviso, è ancora sorda ai problemi dell’Africa? La percezione è che ci si svegli solo quando è l’Africa stessa a venire a bussare alla nostra porta, in modo più o meno violento. È una percezione errata?
«Assolutamente no. L’Occidente ha grandi responsabilità nei confronti del continente nero: dapprima lo schiavismo, poi il colonialismo e, in tempi più recenti, lo sfruttamento delle risorse e le guerre hanno inginocchiato una porzione di mondo altrimenti meravigliosa e ricca. L’Occidente, è vero, ha iniziato a provare interesse per l’ebola nel momento in cui si è sentito minacciato: io, per esempio, sono diventato un caso soltanto perché italiano. Se avessi avuto la pelle nera sarei morto o sopravvissuto nell’indifferenza di tutti».

Ha ricevuto la Candelora d’oro, Napolitano l’ha citata, il ministro Lorenzin le ha manifestato la sua stima. Si aspettava tutta questa attenzione?
«Francamente no e mi sento molto imbarazzato. Tuttavia cerco di gestire questa involontaria popolarità con ponderazione e, soprattutto, con senso di responsabilità. Mi intimorisce il ruolo che mio malgrado mi sono guadagnato: essere citato come esempio è davvero una grande onore ma, di certo, anche un pesante onere».

Luisa Santangelo

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