Experia, nuova richiesta di archiviazione Il legale: «Ma le motivazioni restano oscure»

Un asciutto documento, di due pagine appena, e nessuna motivazione concreta. Si conclude così il secondo atto della vicenda Experia, lo sgombero del centro sociale occupato catanese avvenuto all’alba del 30 ottobre del 2009. E’ una richiesta con il contagocce quella con cui la procura di Catania chiede per la seconda volta di archiviare la denuncia di quattro persone – tre rappresentanti istituzionali e un avvocato – per le presunte violenze delle forze di polizia presenti allo sgombero. Era già successo un anno dopo, a dicembre 2010, quando le indagini erano in mano al sostituto procuratore Enzo Serpotta. E’ successo di nuovo il 14 marzo – con una richiesta notificata ai denuncianti solo qualche giorno fa – con il fascicolo in mano allo stesso magistrato. In mezzo, però, l’indagine ha subito diversi cambi di rotta.

Già a maggio del 2011, così come a settembre dello scorso anno, il procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro e la sostituta Alessandra Tasciotti manifestano una linea diversa rispetto a quella del collega Serpotta, secondo il quale i poliziotti avrebbero fatto un uso legittimo della forza nei confronti dei manifestanti. Per i due magistrati, invece, la condotta delle forze dell’ordine non sarebbe stata poi così chiara. Entrambi esprimono la necessità di identificare gli agenti presenti quel giorno. D’accordo con loro è il giudice Alessandro Ricciardolo che, sei mesi fa, dispone nuove indagini sugli elementi emersi fino a quel momento. E il caso torna nelle mani di Enzo Serpotta, affiancato dal procuratore aggiunto Giuseppe Toscano. I due magistrati mantengono la stessa linea del 2009, stavolta firmata anche dal nuovo procuratore capo Giovanni Salvi. «Ma siccome non riesco a capire se, per la procura, si è trattato di uso legittimo della forza o non identificabilità dei poliziotti, finché non arriverà la certezza bisogna andare avanti», commenta il legale dei denuncianti Goffredo D’Antona, che annuncia ricorso entro i dieci giorni previsti.

E in effetti, nel documento di due pagine, non si rintracciano spiegazioni chiare dell’ipotesi della procura etnea. I magistrati firmatari raccontano di aver preso visione dei quattro video di testate locali e giornalisti freelance, girati all’alba di quel 30 ottobre e depositati dai denuncianti. Nei filmati, scrive la procura, «si osservano numerosi manifestanti posti all’ingresso del centro sociale con le mani alzate che impediscono alle forze di Polizia, in tenuta antisommossa, l’accesso all’immobile; si osservano altresì numerosi agenti che per vincere la resistenza opposta dai dimostranti posti all’ingresso dei locali da sequestrare fanno uso di sfollagente; si odono infine voci concitate che lanciano invettive, anche oltraggiose, all’indirizzo dei poliziotti. Dall’esame delle immagini non è possibile focalizzare i volti degli agenti di polizia che hanno fatto uso di sfollagente». Un asciutto resoconto delle immagini che però non aiuta a capire le motivazioni dei magistrati per chiedere che il caso venga chiuso. Né quando e perché sarebbero scattate le violenze.

Le manganellate e gli insulti denunciati dall’avvocato Marco Rapisarda – insieme a Pierpaolo Montalto, avvocato e segretario provinciale etneo di Rifondazione Comunista, Valerio Marletta, allora consigliere provinciale di Rifondazione comunista e oggi sindaco di Palagonia e Luca Cangemi, segretario regionale di Rifondazione, già deputato nazionale – ma anche i calci e gli spintoni da parte dei manifestanti nei confronti delle forze dell’ordine richiamati dalla procura nella prima richiesta di archiviazione del 2010. Oggi, per i magistrati, «le immagini mostrano in modo eloquente quale fosse l’intento dei manifestanti, in particolare quello di impedire che la polizia ponesse in esecuzione il provvedimento del giudice che aveva disposto il sequestro preventivo dei locali arbitrariamente occupati».

Nel dettaglio, spiegano Serpotta, Toscano e Salvi, «si erano barricati davanti l’ingresso dell’immobile dove era stata predisposta, prima ancora dell’arrivo della polizia, una cintura composta da transenne metalliche incatenate e moduli in terra per il montaggio dei ponteggi, nonché assi di legno e suppellettili». Una strategia che fin qui, dalle parole dei magistrati, sembra essere passiva. Tranne che per un dettaglio, citato alla fine della richiesta: «Venne sollevato di peso e lanciato contro gli agenti di polizia un armadietto metallico». A mostrarlo è il fotogramma di un video della polizia scientifica, finora mai inserito negli atti e mai visionato dai denuncianti.

Ma non è questa l’unica novità del fascicolo. Dopo la decisione di Ricciardolo di continuare le indagini, l’avvocato D’Antona aveva chiesto al procuratore capo Salvi che a occuparsene non fosse nuovamente Serpotta. «Perché in generale ritengo che, se un pm chiede l’archiviazione ma l’idea del suo ufficio non è così univoca e un giudice ritiene di restituire l’indagine – spiega – per una questione di serenità sarebbe opportuno cambiarlo». Perplessità che erano state espresse al capo dell’ufficio etneo – a cui spettava la decisione – con una lettera protocollata come riservata personale. Ma che adesso è di dominio pubblico. «Anche se era riservata, è finita nel fascicolo del processo – racconta l’avvocato – Ne ho preso atto con vivo stupore, perché per noi avvocati è un illecito».

[Foto di Giovanni Battaglia]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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