Europee, Lombardo per l’unica lista con falce e martello «L’Ue non si può cambiare, è una gabbia da cui uscire»

Alberto Lombardo, docente ordinario di Statistica al dipartimento di Ingegneria dell’università di Palermo, corre alle elezioni Europee nella lista del Partito comunista, di cui è membro dell’ufficio politico oltre che responsabile della rivista online La Riscossa. È alla sua prima competizione elettorale. 

Qual è la vostra opinione rispetto all’attuale governo dell’Unione europea?
«La nostra opinione non può essere più negativa. I diritti dei lavoratori e il loro potere d’acquisto si sono ridotti sempre più, mentre i profitti delle banche e delle grandi multinazionali – europee ed italiane – aumentano costantemente. Noi crediamo che ciò era proprio il disegno che presiedeva alla costruzione dell’Unione Europea, fin dai suoi albori, infatti il vecchio Partito Comunista votò fin dagli anni ’60 contro i Trattati costitutivi, mentre poi si convertì all’europeismo. Quindi, non assistiamo a errori, ma a un preciso progetto antipopolare. Inoltre, i Trattati non sono modificabili se non all’unanimità, così come occorrono ormai oltre i due terzi dei voti del Parlamento per rigettare il pareggio di bilancio dopo che esso è stato messo in Costituzione. Quindi chi parla di riformare l’Europa mente, sapendo di mentire. O ci si tiene questo disastro – e si andrà sempre peggio – o si rompono i Trattati e ci si svincola sia dalla gabbia dell’Unione, così come dall’alleanza aggressiva e imperialista che ne costituisce la proiezione militare, ossia la Nato».

Quali sono le tre priorità da cui fareste partire il cambiamento?
«Noi riteniamo che il capitalismo non sia riformabile, quello che stiamo vivendo ora non è una fase malata della società, ma è la sua più pura espressione, fatta di disoccupazione, bassi salari, assenza di  diritti, oppressione. Ciò si aggrava sempre di più in quanto le naturali barriere che i lavoratori, le donne, i giovani e tutti gli oppressi avevano, oggi sono state distrutte, e mi riferisco in particolare a un grande Partito Comunista e un sindacato che faceva lotta di classe e non concertazione. Il capitalismo è la “malattia” e va debellato, ossia si deve rovesciare il potere economico e quindi quello politico dei padroni per una nuova società, in cui chi produce, ossia i lavoratori, decida cosa, quanto e come produrre, non per il massimo profitto di pochi, ma per il benessere dei più. In una parola il socialismo». 

Uno scenario che sembra ormai del secolo scorso.
«Le tre priorità che noi invochiamo nell’immediato sono: nazionalizzazione delle grandi aziende strategiche con affidamento ai lavoratori, secondo quanto previsto anche dala Costituzione (non come hanno fatto con l’Alitalia); salario minimo per mansione, in modo da evitare la guerra tra poveri, guerra che vincono sempre i ricchi; servizi pubblici e assunzioni pubbliche per risolvere la piaga dell’emigrazione dei nostri giovani, salvaguardare il territorio e il nostro Paese. In una parola, non reddito miserabile, ma lavoro dignitoso, stabile e sicuro».

Come valutate le politiche agricole dell’Unione europea e cosa servirebbe all’agricoltura siciliana?
«Nell’agricoltura si misura con maggiore gravità la natura predatoria del capitalismo. Di fronte a statistiche che vedono il Pil del settore agroalimentare in crescita, si nasconde la disperazione dei nostri piccoli contadini, che non riescono a spuntare neanche prezzi che coprono i costi. I grandi agrari ingrassano e i contadini fanno la fame. Anche qui l’Europa non ha affatto aiutato i piccoli, anzi spesso molti si sono rovinati perché indotti a investimenti fallimentari o poi non rimborsati. La grande distribuzione nazionale e internazionale detta legge sul mercato. Un patto tra Stato e piccoli contadini, ma anche con i piccoli artigiani e i piccoli imprenditori: prezzi concordati fin dall’inizio con programmazione pluriennale, trattamento economico dei lavoratori imposto per legge e tasse concordate in anticipo a fronte di un bilancio economico assicurato. I contadini hanno bisogno di sicurezza nel futuro che solo uno stato dei lavoratori può dare ad essi. Ciò metterebbe fine anche al disumano trattamento che subiscono i braccianti spesso schiavizzati dai caporali e sfruttati sulla terra».

Credete nel valore dell’euro o meglio un’Italia fuori dalla moneta unica?
«Ridurre il problema a “Euro sì/Euro no” è fuorviante. Uscire dall’Euro, rispettando i trattati e dovendo poi ripagare il debito, sarebbe un danno peggiore del male. Infatti la nostra proposta è opposta a quella dei cosiddetti sovranisti, i quali vogliono un padrone italiano e non un padrone europeo. Per questo noi diciamo che la prima cosa da fare è nazionalizzare tutte le banche, non solo la Banca d’Italia. Ciò comporterebbe l’immediata estinzione della maggior parte del debito pubblico, che è detenuto nelle banche italiane. Ciò libererebbe le risorse per far partire l’ambizioso piano di assunzioni pubbliche, che poi si potrebbe autosostenere attraverso il prodotto che esso genera. A questo punto l’Italia – che ricordiamo è sempre la seconda potenza manifatturiera europea – governata dai lavoratori, avrebbe modo di presentarsi col massimo della sua forza produttiva di fronte a tutto il mondo».

Perché in Italia la galassia a sinistra del Pd non riesce a trovare un’unità?
«Leggendo quello che ho scritto prima, la differenza è evidente. Le altre formazioni contigue al Pd e che spesso governano ancora con esso in molte amministrazioni locali, continuano ad avere come riferimento il governo greco di Syriza e il suo leader Tsipras, che ha accettato tutti i diktat europei e condotto la politica più antipopolare. Come potremmo stare con questi opportunisti? Noi facciamo parte invece di un grande fronte internazionale di Partiti Comunisti e Operai europei, di cui fa parte anche il Partito Comunista di Grecia (KKE), che è rappresentato al Parlamento europeo e che, con la sua firma, ci ha consentito di partecipare a queste consultazioni, superando l’antidemocratica barriera della raccolta firme, che invece avevamo affrontato per le elezioni politiche dello scorso anno. Il nostro Partito sta dimostrando di crescere ogni giorno in forza, adesioni, simpatie, sedi aperte, pur contando solo sui propri sostenitori e militanti, non avendo alcuna fonte di finanziamento; mentre gli altri vanno sempre più indietro: vuol dire che a loro la storia ha dato torto, a noi sta dando ragione».

Cosa vi separa da Potere al popolo?
«Il loro programma è molto eterogeneo e si vede che è il risultato di una sommatoria di aspirazioni. Ciò in politica non è una ricchezza, ma una debolezza, perché chi non è d’accordo su questo o su quello si allontana o comunque non lo fa proprio. La forza non sta nell’unione indistinta, ma nell’unità di intenti e nella coesione. Invece la nostra proposta è un blocco coerente che deriva da riflessioni che scaturiscono non solo da un’analisi storica del movimento comunista italiano, ma anche e soprattutto internazionale. Si può essere d’accordo o meno sui presupposti, ma se si accettano quelli, tutto il resto è coerente e si impone da sé. Invece altri programmi non hanno la stessa coerenza. Il fatto di scegliere come simbolo la falce e il martello per noi è indicativo di questo: coerenza storica e non certo nostalgia. Tutti gli altri non lo fanno. Quindi non è un problema di simboli, ma i simboli rappresentano la sostanza di quello che c’è sotto».

Quali sono le battaglie sul territorio siciliano per cui vi spendete?
«Noi siamo accanto ai lavoratori siciliani, dalle fabbriche ai servizi, dai contadini alle scuole coi nostri giovani del Fonte della Gioventù Comunista che si rafforzano ogni giorno di più nelle scuole e nell’università. Mi sia permesso di citare un nostro compagno contadino, Emanuele Feltri, già candidato nelle scorse consultazioni elettorali, conosciuto in tutta la Sicilia orientale per la sua opera di sostegno a un’agricoltura fatta dai lavoratori e per i lavoratori. Ma abbiamo anche compagni impegnati tra gli operatori sociali che subiscono in prima persona le contraddizioni di questo sistema che non solo si scaglia contro i profughi, facendone il bersaglio del peggiori sentimenti reazionari, ma poi non si occupa neanche di tutti quei lavoratori che poi invece non ricevono per mesi né stipendi né certezze per il futuro. Compagni impegnati nei call-center, i campi di cotone moderni, i rider, che rischiano la vita in bicicletta per pochi euro… Se fossimo di più, riusciremmo anche a essere presenti in molti più luoghi di lavoro, soprattutto avendo dentro quei luoghi i comunisti».

Salvo Catalano

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