Essere conformisti? E’ anticonformista

Io, cos’è la marginalità, non l’ho mica capito. Perché sono sempre stata abbastanza conformista, per quanto il termine faccia paura. Conformista nello scegliere di mettere i jeans larghi e le magliette di una taglia più grandi, conformista nel rifiutarmi d’ascoltare la musica smaccatamente pop più richiesta in radio, conformista nell’allinearmi ad uno schieramento politico, votandolo (inutilmente, visto che lo sbarramento non perdona), pur sapendo che non aveva qualcosa di troppo diverso dagli altri. Conformista perché è facile dichiararsi contro tutti quando, in fondo, tutti sono contro tutti.

John Stuart Mill, economista e filosofo, due secoli fa sosteneva che le persone farebbero bene a sopportarsi, piuttosto che cercare di imporre la propria opinione gli uni sugli altri. E, in fondo, per quanto in due secoli la società dovrebbe essere cambiata, non me la sento di dargli torto.

E, come me, non se l’è sentita il prof. Vincenzo Provenzano, autore del libro intitolato “Il valore della marginalità in un mondo conformista”, presentato mercoledì scorso nell’aula magna della Facoltà di Scienze Politiche, totalmente vuota fuorché per quattro sparuti spettatori (la scrivente compresa) che pareggiavano, nel numero, con gli illustri oratori, Luigi Caranti (associato di Filosofia politica), Maria Olivella Rizza (economista e docente di Economia monetaria internazionale), Fabrizio Sciacca (ordinario di Filosofia politica) e, ovviamente, il professore-scrittore (associato di Economia applicata nonché editorialista economico per La Repubblica – Palermo).

S’è assistito, sostanzialmente, ad una interessante lezione incrociata di filosofia ed economia, che ha spaziato attraverso temi di scottante attualità e affascinante storicità.

«La marginalità», ha spiegato Provenzano «non è altro che la possibilità di cambiamento che da una determinata azione può derivare. In economia, con la crescita di una realtà certi processi si standardizzano e tendono a conformarsi, creandosi attorno dei margini, appunto, di evoluzione.»

La storia della Wal-Mart, ad esempio, riguarda lo sfruttamento di questi famosi margini. Era il 1962 quando tale Sam Walton fondò quella che, attualmente, è una delle più grandi multinazionali al mondo per numero di dipendenti e fatturato.

«Il concetto da cui Walton partiva era il più semplice: per crescere bisogna evitare la concorrenza. Dove si evita la concorrenza? Dove non ce n’è. Nelle cittadine più sconosciute dell’entroterra americano, con pochi abitanti e ancor meno soldi che girano. La Wal-Mart ha investito su un terreno secco, e ha vinto la sua scommessa. Ovviamente, i loro criteri vanno adattati luogo per luogo: non si capisce, infatti, perché in Germania il loro meccanismo abbia fallito.»

Per discutere di marginalità, poi, non bisogna andare troppo lontano: la Sicilia e la sua produzione biologica rientrano nel campo dell’eccentricità commerciale. Un’agricoltura “pulita” è più costosa e garantisce meno risultati, però gode della fiducia dei consumatori, ed è questa l’arma vincente.

Marginale è periferico. E’ un concetto spaziale che presuppone un centro. Marginale è particolare rispetto a generale. Marginale è opposto a normale. Marginale è non conforme, non convenzionale.

«Ma il mercato del biologico, ad esempio, non rientra già nel conformismo?», punge Fabrizio Sciacca ricordando che laddove si aspiri all’anticonvenzionalismo si rischia di scadere nella banalità della massificazione.

«La marginalità, in un momento di crisi del capitalismo, è un valore aggiunto», sottolinea Maria Olivella Rizza. Ma può prescindere da una politica sociale oculata? Probabilmente no.

Luisa Santangelo

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