Emergency a Catania, Cecilia Strada loda la Sicilia e rilancia «Dibattito su ius soli mostra un Paese razzista e spaventato»

«Abbiamo scelto Catania per restituire ai siciliani qualcosa di quello che ci hanno dato in questi anni». Ieri sera nel capoluogo etneo ha preso il via la festa nazionale di Emergency: incontri al teatro Bellini, al cinema Odeon e al palazzo della cultura tra oggi e domani. E musica in piazza sabato sera. Tutto a ingresso gratuito, per ragionare e discutere di guerra e pace. Proprio nell’isola, a Palermo, nel 2006 Emergency ha aperto il suo primo poliambulatorio per fornire assistenza sanitaria ai migranti e a tutti quelli che ne hanno bisogno. 

La Sicilia non è stata dunque una scelta casuale, come spiega Cecilia Strada, presidente della Ong e figlia del fondatore Gino. «Prima dell’intervento del governo centrale, la Sicilia, attraverso gli enti locali, ha gestito in modo efficiente e dignitoso l’accoglienza dei migranti. Basti pensare come il territorio di Siracusa abbia saputo affrontare l’arrivo di 70mila persone in due anni».

Cecilia, trova qualcosa di diverso nell’approccio della Sicilia al fenomeno dell’immigrazione rispetto al resto d’Italia?
«L’approccio dei siciliani è molto improntato all’umanità, è un approccio del rimboccarsi le maniche e del fare». 

In questi mesi, a seguito del piano nazionale di ridistribuzione dei migranti, anche chi abita nei più piccoli paesi della Sicilia entrerà in contatto con lo straniero. Per molti, soprattutto per i più anziani, sarà la prima volta. Una piccola rivoluzione. Qual è la strada per un’integrazione reale?
«Vivere questa situazione come un’opportunità, ascoltarli, condividere. L’accoglienza in piccolo, intesa come piccoli gruppi in piccoli comuni è senz’altro la strada migliore per evitare la creazione di ghetti. Sotto questo aspetto un esempio straordinario è Riace: il paese calabrese stava per scomparire e invece, con l’arrivo dei migranti, si sono rimessi in moto. Il sistema Sprar permette a residenti e migranti di guardarsi in faccia e conoscersi, di scambiarsi vita».

A proposito di ghetti: si dice che uno dei motivi per cui l’Italia finora non sia stata toccata da attentati terroristici, a differenza di altri Paesi come Francia, Belgio o Regno Unito, sia la mancanza di quartieri ghetto nelle grandi città italiane. È una contrapposizione che ha senso?
«Sì è no. Francia e Belgio sono paesi molto diversi dall’Italia. Hanno una storia più lunga, esiste già una quarta generazione dei nipoti. Quale modello dobbiamo seguire? È giusto porsi la domanda, anche alla luce degli attentati. Ma bisogna dire con forza che gli attentatori individuati erano tutte persone già schedate e di seconda generazione. È lì che si rischia una perdita di identità che genera sbandamento, quando non ti senti di appartenere né al Paese dei tuoi genitori, né a quello in cui vivi. Così si possono creare dei buchi che si sommano al degrado della vita quotidiana, alla droga, alle cattive compagnie, al conflitto generazionale. Un mix che poi incontra la forza comunicativa molto potente del fondamentalismo islamista. Il problema è europeo, e non è certo legato a chi è arrivato ieri sui barconi».

Parlare di seconde generazioni porta al dibattito sull’approvazione della legge sulla cittadinanza. Secondo lei, le polemiche attorno allo ius soli dimostrano che l’Italia è un paese razzista?
«Sì, io credo che dimostrino come l’Italia sia un paese un po’ razzista, ma anche spaventato. Chi forma la propria opinione senza vedere le cose da vicino, e si limita a leggere i giornali, guardare la tv e seguire i politici di turno, rischia di farsi imbrigliare. Il dibattito sullo ius soli dovrebbe portare a chiedersi: cosa vogliamo che siano le nostre comunità? Chi ne deve far parte? Penso che le nostre comunità debbano essere costituite da chi vuole sentirsi parte di esse. Io non so spiegare a mio figlio di sette anni perché, secondo la legge, lui e il suo compagnetto sono diversi, anche se sono uguali perché parlano la stessa lingua, ascoltano entrambi Rovazzi e si vestono allo stesso modo. E quando non si sa rispondere alle domande dei bambini, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona».

Ha citato la politica: la Sicilia, così come la città che avete scelto per questa festa, è amministrata dal Pd. Ma a breve potrebbe anche diventare la prima Regione guidata dal Movimento 5 stelle. Cosa pensa delle politiche sull’immigrazione dei due principali partiti di questa fase?
«Non mi convincono, nessuno dei due. Sia il Pd che il Movimento 5 stelle hanno entrambi molto da lavorare da questo punto di vista». 

Mercoledì scorso un attentato a Kabul ha fatto 150 morti. E ieri un altro attentato ha fatto decine di vittime in un’altra città dell’Afghanistan, Lashkar-gah. Voi avete assistito a tutte le fasi seguite alla guerra del 2001. Che città è oggi Kabul?
«Kabul è una città sempre più insicura, dove rischi la vita per andare a lavorare. Fino al 2007 qualcosa era migliorato, poi la gente ha cominciato a riperdere la speranza. È una città sotto choc e non si vede ancora la fine del conflitto. Solo se gli afghani metteranno da parte le divisioni interne per combattere il nemico comune che è la guerra, la miseria e la corruzione, potrà cambiare qualcosa. E inoltre non ci sarà pace fino a quando non ci sarà un’occupazione straniera».

Tante persone sostengono Emergency e tante vorrebbero darvi una mano. Di quali figure avete bisogno?
«All’estero abbiamo bisogno di personale specializzato sanitario: dai chirurghi agli amministratori. In Italia servono anche i volontari capaci di diffondere una cultura di pace e di raccogliere fondi per la Ong. C’è posto per tutti, basta un po’ di tempo e un po’ di coraggio. Così si curano otto milioni di persone bene e gratis». 

Salvo Catalano

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