Elliott Smith: radiografia di un genio scomparso

Elliott Smith (all’anagrafe Steven Paul Smith) nasce il 6 Agosto del 1969 e muore il 21 Ottobre del 2003. Tra queste due date si dipana il meraviglioso e fragile velo della sua vita e della sua arte; un velo lungo appena trentaquattro anni, squarciato da due disperati colpi di pugnale. Elliott Smith ha stimolato le nostre lacrime più incavate, le ha fatte sgorgare in singulti spezzati nelle notti del nostro inverno, le ha raccolte e asciugate e, infine, ci ha offerto il suo caldo abbraccio. Questo è stato, più o meno, il piccolo miracolo della sua arte e chiunque l’abbia provato mi sarà testimone. Una catarsi spietata, un delizioso supplizio.

“Già… ma, di grazia, chi era Elliott Smith?”. Elliott Smith è stato uno dei cantautori (laddove il termine mira a restituire pari dignità alle due dimensioni, quella lirica e quella strettamente musicale) più geniali (nonché incompresi) che il nostro spietato mercato musicale abbia ospitato nelle ultime due decadi.

Elliott Smith è stato una delle migliori incarnazioni dell’idea dell’artista avulso dal sistema, totalmente ripiegato in sé stesso, con la schiena ricurva sull’addome e la testa conficcata nelle viscere della propria anima a scandagliare e ricercare e patire per creare. Un artista interamente dedito al suo lavoro; tanto che, negli ultimi anni di vita, finì col dimenticare tutto il resto, accettando la dimensione del lavoro e dell’arte e del “patire per creare” come l’unica possibile. Elliott Smith è stato e non è più. Nato da uno psichiatra e da un’insegnante di scuola elementare in quel di Omaha (Nebraska), subisce il peso della separazione dei genitori e il macigno delle ripetute percosse inflittegli dal nuovo marito della madre. Ma è vero che il dramma interiore non va fatto risalire a oscure vicende familiari, né ad altri agenti esterni: l’inferno più grande è affacciarsi dal finestrino dell’auto e vedere il mondo, quando non si hanno le difese adatte a sopportarne le intemperie e gli schiaffi. Elliott ci prova, ad affacciarsi al mondo. Lo osserva, lo mastica, ma non riesce a sentirne il sapore e non riesce a coglierne la forma. A quattordici anni raggiunge il suo padre naturale a Portland, dove inizia gli studi liceali e, parallelamente ad essi, si lancia nelle prime avventure musicali; fonda gli Heatmiser con l’amico Neil Gust, con i quali incide due LP tra il 1993 e il 1994. Ma le sonorità spigolose e troppo “rock-oriented” della band gli vengono sempre più a noia, mentre si affina il suo gusto per la ballata acustica dolce quanto obliqua che farà, da lì a breve, la sua fortuna.

E’ proprio il suddetto 1994, l’anno della svolta; è in quest’anno, infatti, che Elliott dà alle stampe il suo primo LP da solista, il meraviglioso “Roman Candle”: un disco fatto di singulti, di note sfiorate con la delicatezza di un panno di seta, ma la cui onda sonora si spegne in un lamento amaro e straziante, lasciando un retrogusto di bile in chi le assapora. Un disco fatto di piccoli bozzetti poetici, autistici eppure estremamente coinvolti, inviluppati in sé stessi e nel proprio bisogno di spegnere la fiamma della rabbia e della delusione; magari con l’ironia, che è da sempre l’arma preferita dai malati di troppa purezza. I punti di riferimento musicali sono palesi anzi che no: Nick Drake, Simon & Garfunkel, Bob Dylan, Neil Young.

Il disco ottiene un discreto successo nell’ambiente dell’underground, tanto che l’etichetta “Kill Rock Stars” propone a Smith di inciderne un seguito. E, infatti, il secondo e omonimo capitolo sembra proprio essere il seguito ideale del precedente, con l’aggiunta dei frutti della maturazione musicale a renderlo qualitativamente migliore, meno naïf e acerbo del predecessore. Le composizioni si fanno più definite e articolate e anche i suoni diventano più corposi, sebbene essi siano pur sempre legati allo schema della ballata folk in chiave modernamente indie-rock. Ma è col successivo “Either/Or”, datato 1997, che Smith raggiunge la piena maturità stilistica e compositiva: è, quest’ultimo, una raccolta di dodici meraviglie pop-rock in salsa agrodolce; dodici gemme dalla perfetta geometria; dodici piccoli capolavori destinati a rimanere bruciacchiati intorno alle sinapsi per la durata di una vita. Il lavoro sulla composizione, sia delle musiche che dei testi, è davvero notevole, ancor più che in passato. Gli arrangiamenti, dal loro canto, risultano essere più ricercati e meno approssimativi, meno inclini a lasciare l’intero campo alle composizioni e più desiderosi di mostrare il loro volto: basso e batteria sono più presenti rispetto al passato e, qua e là, fanno capolino alcuni delicati inserti di chitarra elettrica.

E’ coi due dischi successivi, “Figure 8” e “XO”, che questa ricerca in termini di ricchezza della produzione globale viene condotta ai vertici: arrangiamenti ricchi e certosinamente lavorati; sezioni di archi e fiati a condire, col loro gusto barocco, i brani; una pulizia del suono decisamente maggiore rispetto ai lavori passati; i Beatles a prevalere sui cantautori americani come primaria fonte di ispirazione. Sono, questi, gli anni dell’aggravarsi della crisi interiore di Elliott, il quale finisce spesso col ritrovarsi nel mezzo di una strada, senza riuscire a ricordarsi il come, il dove e il perché. E’ completamente distaccato da sé stesso e dal mondo. Un frammento di “Memory Lane”, una canzone scritta in questo periodo, estremamente eloquente sul suo stato interiore, recita così: “Sto comodamente in disparte, è tutto scritto sulla mia cartella clinica; e prendo quello che mi viene dato in modo più cooperativo; faccio quello che la gente mi dice e sto a letto tutto il giorno, completamente atterrito… spero siate soddisfatti!”. L’abuso di alcol e psicofarmaci non fa che aggravare la sua condizione e l’amore e la dedizione della fidanzata Joanna non riescono ad arginare le sue emorragie spirituali. Non riesce ad andare avanti, non ce la fa. Si pugnala al cuore due volte, un pomeriggio del 21 ottobre 2003. Si offre un perenne rifugio dall’inferno quotidiano, tramite un gesto di efferata crudeltà. A noi rimane, a mo’ di prezioso quanto amaro testamento, “From A Basement On The Hill”, il disco a cui stava lavorando con estrema dedizione ormai da anni. Un testamento incompiuto, troncato un attimo prima di vedere la luce nella sua completezza, mozzo come la candela dell’esistenza di chi l’ha creato, spezzata bruscamente in quanto non riusciva più a vedere la fiamma splendere sul suo proprio capo.

Ma la fiamma splendeva alta. E noi riuscivamo a vederla.
Addio, Elliott.

Mauro Iemolo

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