Ecco come salvare la Sicilia: con il Tarì, la moneta complementare all’euro

UNO STRUMENTO DI PAGAMENTO PARALLELO ALL’EURO PER SALVARE LA SICILIA. REGOLATO DA UNA CONVENZIONE ALLA QUALE ADERIREBBERO SOGGETTI PUBBLICI E PRIVATI. A PARTIRE DAI COMUNI. MONETE COMPLEMENTARI SONO STATE INTRODOTTE IN MOLTI PAESI EUROPEI DURANTE LA CRISI DEGLI ANNNI TRENTA DEL SECOLO SCORSO. E HANNO FUNZIONATO.  COME FARE E QUALI RISULTATI PRODUREBBE CE LO SPIEGANO DUE ECONOMISTI DI GRANDE ESPERIENZA: MASSIMO COSTA, DOCENTE DI ECONOMIA ALL’UNIVERSITA’ DI PALERMO E BIAGIO BOSSONE, CHAIRMAN  DI ‘THE GROUP OF LECCE’ ON GLOBAL FINANCE:

“La situazione economica siciliana è grave e persino in via di peggioramento rispetto a un andamento nazionale di per sé drammatico. Se in Italia l’inflazione s’indebolisce, in Sicilia siamo già alla deflazione conclamata: i prezzi flettono e non perché sia cresciuta la produttività e la competitività dei nostri produttori, ma perché settore privato e pubblico spendono sempre meno. Anzi, il denaro proprio manca.
L’economia siciliana è in “caduta libera” e non soltanto le politiche nazionali e regionali non arginano la caduta, ma esse stesse la accelerano. 
Il malessere è diffuso e crescente. La carenza di rappresentanza politica del disagio dei cittadini fa sì che essi soffrano in solitudine e non abbiano capacità di espressione aggregata del malessere. Il fatto che alle ultime elezioni regionali abbia votato meno della metà degli elettori e che si aggirino ancor più fosche previsioni per le prossime europee non può tranquillizzare nessuno. I Siciliani non vanno più al voto; si stanno dunque “scollando” dalla comunità politica nazionale?

Il rischio è che il fuoco covi sotto la cenere e che, d’improvviso, divampi incontrollato. D’altra parte, seppur riuscirà a evitare le fiamme, la Sicilia resta preda di un declino soffocante che non sembra lasciar tracce di speranza in chi ancora vuol credere nel progresso della sua storia. Un numero crescente di giovani oggi lascia la Sicilia in cerca di un futuro.
Le origini dell’attuale crisi trovano radici in scelte europee e nazionali che, ammantate d’elegante tecnocratismo elitista e spacciate per ineludibili conseguenze di verità superiori, hanno impedito politiche economiche di sostegno alla domanda e all’occupazione, che pure altri paesi hanno saputo adottare. Non sono mancate proposte in tal senso, ma sono state volutamente ignorate.
Tuttavia, le cause esterne della crisi non assolvono la Sicilia che, prima della crisi e per decenni, ha dissipato invece che costruire, coltivato rendite e clientele invece che stimolare innovazione e intrapresa, mortificato il merito invece che premiare i migliori. Come e anche peggio che nel resto del Paese. Ne hanno beneficiato le consorterie parassitarie, private e pubbliche, mentre il popolo ha convissuto col degrado e la corruzione dilaganti (tanto i soldi giravano…). Ne è stata soppressa la capacità di creare una società sana, vitale e produttiva. Così, la crisi ha trovato in Sicilia un terreno che da franoso è diventato franante.
Oggi mancano i fondi per qualunque azione di ripresa e mancano soprattutto le idee per provare a reagire.
La Sicilia ha bisogno di riforme profonde. Necessita, anzi, di una vera e propria rifondazione. Ma, nell’immediato, deve evitare il collasso e creare un argine alla valanga in corso, per far sì che ci sia ancora, domani, un terreno su cui poter rifondare. A questo mira l’idea che esponiamo di seguito.
L’idea è di creare, presto, in Sicilia uno strumento di pagamento che circoli parallelamente all’euro, con lo scopo di creare nuovo potere d’acquisto per lavoratori, famiglie, imprese e amministrazioni locali e invertire la vertiginosa caduta della spesa. Se la creazione di moneta è inflazionistica in tempi di piena occupazione, essa è invece proprio quel che serve in tempi di deflazione e dilagante disoccupazione. Monete complementari furono introdotte in Austria, Germania e Svizzera durante la devastante crisi degli anni Trenta, e funzionarono.
Il nuovo strumento di pagamento siciliano sarebbe governato da una Convenzione alla quale aderirebbero volontariamente soggetti pubblici e privati residenti o con sede in Sicilia. Esso avrebbe natura elettronica, il che ne accrescerebbe l’efficienza e ne abbatterebbe i costi di gestione. Non sarebbe convertibile in euro, ma circolerebbe accanto all’euro. Chi aderisse alla Convezione s’impegnerebbe a usare il nuovo strumento e a riceverlo nella propria attività di pagamento.
Esso avrebbe massima efficacia se i soggetti pubblici aderenti (i Comuni, la Regione, gli enti locali o altri enti pubblici come, ad esempio, le scuole) lo accettassero per una quota dei propri tributi e introiti. In particolare, la sua diffusione sarebbe assicurata se la Regione siciliana ne decretasse l’accettazione per il pagamento di almeno parte dei maggiori tributi dovutile (IRPEF, IRES, IVA), previo accordo con lo Stato.
L’immissione e la gestione del nuovo strumento avverrebbero per opera di un istituto finanziario che accentrerebbe tutti i conti su cui esso circolerebbe. L’istituto sarebbe dotato di ampia autonomia operativa, contabile e amministrativa e il suo capitale sociale sarebbe detenuto dai soggetti aderenti alla Convezione. Esso sarebbe guidato da un Presidente scelto fra professionisti in possesso di adeguati requisiti professionali ed etici, che riceverebbe un mandato sufficientemente lungo per garantirne l’indipendenza (revocabile solo in caso di grave violazione dei doveri d’ufficio) e che risponderebbe a un consiglio composto da rappresentanti dei soggetti aderenti alla Convenzione e delle università siciliane. Al consiglio spetterebbe di approvare i piani strategici e la programmazione operativa dell’istituto, di nominarne il Presidente (su proposta dell’assemblea dei soci) e di esercitare funzioni di controllo.
L’istituto deciderebbe quanta nuova “moneta” immettere periodicamente nell’economia regionale, sulla base di un obiettivo puramente economico di crescita del reddito nominale locale, e lo farebbe assegnando “pacchetti” di nuovo denaro agli enti pubblici aderenti, in proporzione alla quota individuale di partecipazione al capitale, che lo utilizzerebbero per pagamenti e trasferimenti a favore di altri soggetti aderenti, i quali a loro volta farebbero altrettanto (ivi incluso anche il pagamento di parte dei tributi dovuti agli enti aderenti). Ciò eserciterebbe un’azione di stimolo della domanda interna e di assorbimento della disoccupazione, che permetterebbe di allentare la morsa dell’austerità.
Nel decidere gli utilizzi delle nuove disponibilità, ciascun ente adotterebbe i criteri e le norme previste dalle vigenti leggi di spesa, ma sarebbe chiamato a rispettare precisi requisiti di condizionalità stabiliti dall’istituto, tra i quali l’obbligo di destinare una parte del denaro a spese per investimenti e di utilizzare ben definiti indicatori di qualità del servizio e d’impatto ambientale.
Annualmente l’istituto potrebbe corrispondere ai soggetti convenzionati privati assegnazioni aggiuntive del nuovo denaro in proporzione alla movimentazione dei conti. In altri termini, chi dimostrasse di utilizzare maggiormente il nuovo denaro, accettandolo e spendendolo, si vedrebbe riconosciuto una sorta d’interesse e, dunque, un incentivo a nuova spesa.
L’inconvertibilità del nuovo denaro in euro farebbe sì che esso restasse in Sicilia, stimolando le produzioni locali (a maggior contenuto di lavoro locale).
L’istituto coprirebbe i propri costi di gestione applicando una modesta commissione in euro su ciascuna transazione. Superata la soglia di breakeven, l’istituto, dunque, non costerebbe nulla al contribuente. Inoltre, oltre a ripagare i propri costi di gestione (peraltro snelli in quanto operante su una piattaforma informatica), potrebbe costituire un solido fondo patrimoniale per l‘eventuale convertibilità futura dello strumento o, addirittura, per distribuire dividendi ai partecipanti al capitale.  
Il nuovo denaro potrebbe chiamarsi “Tarì”, dal nome dell’unità di conto che fu in uso in Sicilia dal 1061 al 1861, nome che è anche acronimo di Transazioni Automatizzate per la Ricostruzione dell’Isola, il cui valore nominale sarebbe posto in parità fissa nominale con l’euro (ad esempio, se un Tarì fosse posto pari a 10 euro, potrebbe dividersi in 1000 millesimi, esattamente corrispondenti agli eurocent, che potrebbero per convenzione chiamarsi anche “Pìccioli”, sempre in omaggio alla tradizione monetaria dell’Isola).
Un tale progetto sarebbe complesso da programmare e da attuare e richiederebbe analisi specifiche di diversi aspetti istituzionali, giuridici, amministrativi, organizzativi.
Potrà funzionare soltanto se i Siciliani vorranno credervi e intenderanno sostenerlo partecipandovi. Soltanto così la nuova moneta avrà successo nello stimolare la domanda e l’offerta e, quindi, quella crescita che oggi è impossibile. Ma perché mai un cittadino siciliano dovrebbe accettare il Tarì? Semplicemente perché senza di esso oggi non avrebbe l’opzione di ricevere alcunché d’altro… E, allora, forse meglio provare a farlo funzionare.
Obiezioni all’idea che qui proponiamo saranno ovviamente più che legittime e utili. Auspicheremmo, peraltro, che chi volesse obiettarvi sentisse anche il dovere di formulare alternative migliori”.

Biagio Bossone
Chairman, “The Group of Lecce” on global finance

Massimo Costa
Economista, Università degli studi di Palermo

 Una moneta complementare per salvare la Sicilia: la scheda tecnica

 APPROFONDIMENTI: QUESTO IL LINK DOVE E’ POSSIBILE LEGGERE LO STUDIO COMPLETO SUL TARI’

Redazione

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