Due chiacchiere con Eugenio Cappuccio

Rivelazione della giornata è Eugenio Cappuccio. Regista romano (Il Caricatore, La vita è una sola, Volevo solo dormirle addosso), sorprendentemente giovane, affascinante, spiritoso, colto, interessante. Con giacca nera per darsi un tono, ma sotto t-shirt con la scritta “Ti stimo molto”, motto del tour de force promozionale che li ha portati nelle più grandi città d’Italia.


Partiamo dal titolo. Qual è il significato nascosto? “Uno su due” è una battuta del film che ad un certo punto Ninetto Davoli rivolge a Fabio Volo riferendosi al fatto che ci sono delle possibilità o meno di scamparsela nel momento in cui viene diagnosticata una certa malattia. E subito sdrammatizza- In realtà Uno su Due sono le persone che ci auguriamo vadano al cinema a vedere il film!


Da dove nasce l’idea? “Uno su due” è un film che ho girato con grande piacere con un amico, che è Fabio Volo, e tanti altri amici che sono tutti gli attori straordinari che hanno contribuito alla realizzazione di questo prodotto. Devo confessare che è il loro film, perché tutti hanno lavorato molto su di sé prima di venire a girarlo e mi hanno dato tantissimo anche in fase di scrittura.


Fino a che misura hanno contribuito gli attori alla sceneggiatura? Abbiamo notato un auto-referenziale “Esco a fare due passi” di Fabio… ed ancora? No, in verità quella battuta l’ha inventata l’attrice, nonché regista teatrale, Paola Rota che nel film interpreta il ruolo della sorella del protagonista. Lo diceva spesso e io le ho rubato proprio le parole di bocca! È stata sempre lei a coniare il termine “rattenuto” che è un misto tra rattrappito e trattenuto. Paola è stata estremamente importante per la sceneggiatura, per la costruzione del suo personaggio, ma mi ha anche dato un po’ di dritte sugli altri. Come vedi, io mi affido molto al contributo altrui, perché per me il film è un viaggio che si fa insieme e il regista una calamita che va ad attirare tutta la limatura di ferro buona che ha intorno per creare la massa critica del film. In questo senso poi il lavoro con gli attori è stato proprio uno scambio.


A proposito degli attori, ci racconta la figura di Anita Caprioli, protagonista femminile? Anita è entrata perfettamente in questo ruolo di donna moderna, di relazione non stereotipata, non la solita “madonnina” inficiata italiana! Piuttosto il personaggio di Silvia è una che ha voglia di vivere la propria relazione però mantenendo i reciproci spazi di libertà, che non si fa mettere i piedi in testa, che è pronta anche a schiacciarsi nel momento in cui sente che non c’è chiarezza nei suoi confronti, insomma una Donna con la D maiuscola, non una donnina nel senso del luogo comune in tanta letteratura, nella stampa o nell’orrenda fiction televisiva, la cosiddetta “pupazza”! Inoltre è una attrice straordinaria, di una trasparenza, luce, oltre alla immediata bellezza, tali che rappresentano un cinema puro.


Ma la scena di sesso della Caprioli con Volo, solo accennata nel trailer, risulta forse un po’ forzata nell’evolversi della vicenda. Qual è il suo senso? A me piacciono queste scene quando non sono fini a se stesse, quando fanno fare un passo ulteriore al film nel suo racconto, quando gli attori la recitano con trasporto e credibilità (e non viene inserita solo per suscitare battutacce!) e quando serve a mandare avanti la storia. In questo caso, sesso e amore fanno parte della vita e mi è sembrato giusto che il film lo raccontasse. Mi sembrava che in quel momento per i due protagonisti fosse indispensabile quel contatto fisico, forte, quasi doloroso. Lorenzo si aggrappa a questa donna nel momento dell’orgasmo quasi fosse un’ancora di salvezza. In questo senso va letta la scena.


Quindi la vita che inesorabilmente continua a scorrere, come nelle vedute panoramiche di una grigia, movimentata Genova. Come mai ha scelto questa città per ambientare la sua storia? Hai detto bene, la vita che continua a scorrere! Le immagini riprese dall’alto di questo flusso continuo di automobili nella tangenziale rappresentano il mondo che va avanti lo stesso, anche quando il tempo per noi si ferma, che è un po’ anche il tema del film. Ovvero lo stridente contrasto tra il tempo limitato che abbiamo a disposizione e quello infinito che scorre inesorabile attorno a noi. Ho scelto Genova perché rispecchia il personaggio nel suo essere una città protesa e sospesa: protesa verso il mare, l’ignoto, il desiderio di Lorenzo di fare il salto di qualità e sospesa perché subentra tutta la dimensione dell’attesa che caratterizza la vicenda. Inoltre, è contemporaneamente calda e fredda, ha una luce spettacolare ma anche angoli molto bui, dei vicoli strettissimi, i “caruggi”, quasi delle ferite tra un palazzo e l’altro che costringono ad una convivenza coatta e ravvicinata tra le persone. È questa anche la condizione che viene riproposta nell’ospedale, questo essere obbligatoriamente vicini. Mi sembrava la scelta giusta.


È sempre allora nella stessa ottica che si deve intendere la fotografia, un po’ scura e dai colori freddi? È una fotografia molto curata che segue lo sviluppo narrativo, altrettanto importante quanto la recitazione e il suono. La luce ha proprio una sua drammaturgia. Il film è diviso in 3 parti, rappresentate da tre diversi momenti di luce che vogliono rispecchiare i vari stati d’animo del protagonista.


Anche la dichiarazione “Io mi affido” vuole rispecchiare uno stato d’animo o meglio proprio la condizione religiosa del protagonista. Che messaggio ha voluto trasmettere? Io credo fortemente che se uno si mette nella condizione perché certe cose avvengano, è più facile che queste si realizzino! Penso che il sentimento dichiarato con questa frase all’inizio e poi ripetuto alla fine dal protagonista riveli la sua anima buona, la sua tensione ottimistica, positiva nei confronti del mistero della vita. Lorenzo è un uomo accecato ma non ancora del tutto cieco, abbagliato ma che ha ancora la facoltà di vedere. Mantenendo viva questa facoltà, basta poco a far scaturire un incendio! Dipende da quello che ci sta accanto, che però spesso bisogna andare a cercare, come farà il protagonista nello sviluppo della vicenda. Non accettazione fatalistica, ma piuttosto spirituale, con l’atteggiamento di colui che sente che il proprio comportamento produce degli effetti. Affidarsi a se stesso e scendere profondamente all’interno di sé per poi rinascere.

Benedetta Motta

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