Moisi Habilaj non è mai stato uno dei principali boss della droga attivo su scala internazionale, ma solo un semplice «vettore». Capace di organizzare, insieme ad alcuni complici, dei viaggi autonomi di stupefacenti dall’Albania. E quando è andata male, come nel caso dei sequestri effettuati dalle forze dell’ordine ad Augusta e Riposto, ci ha rimesso i soldi investiti di tasca propria. Sono questi alcuni dei passaggi salienti dell’ultima udienza del processo di primo grado scaturito dall’operazione Rosa dei venti. Indagine della guardia di finanza di Catania che ha fatto luce su un maxi-canale di rifornimento di armi e droga dai Balcani alla Sicilia. Il nome di Habilaj è quello che più spicca tra quelli contenuti nell’elenco degli imputati. Non solo perché la procura gli contesta l’accusa di essere il capo di un’organizzazione criminale attiva tra il 2013 e il 2017, ma sopratutto per il fatto di essere il cugino dell’ex ministro dell’Interno albanese Saimir Tahiri. Poi finito indagato anche dall’altro lato del mare Adriatico grazie al lavoro della procura dei crimini gravi di Tirana.
Una parentela che scotta quella tra Habilaj e Tahiri. E che in Albania ha creato un vero e proprio terremoto politico. Tanto che l’ex ministro, dopo il blitz, è finito sott’inchiesta anche a Catania, ma la sua posizione è stata archiviata a ottobre 2018 su richiesta degli stessi uffici giudiziari. Oggi Habilaj ha assistito all’udienza da dietro le sbarre, all’interno di un’aula al piano terra del palazzo di giustizia di piazza Giovanni Verga. A parlare sono stati i suoi difensori: gli avvocati Giuseppe Ragazzo e Maria Caltabiano. Uniti nel tentativo di mettere da parte la richiesta di condanna a 18 anni formulata nei mesi scorsi dal pubblico ministero Andrea Bonomo. «Non è a capo di nessuna organizzazione criminale – spiega l’avvocato Ragazzo durante l’arringa – e non ha mai scelto le persone che facevano parte del sodalizio. La sua è una posizione come quella degli altri». Da qui la richiesta che venga esclusa l’aggravante di essere stato «il capo promotore».
Secondo gli avvocati, la giudice monocratica Maria Cardillo dovrebbe tenere in considerazione anche «il comportamento processuale, sempre lineare e fin dal primo momento incentrato sulla collaborazione con l’autorità giudiziaria». In due occasioni il presunto boss, detenuto dall’ottobre 2017, ha avuto dei faccia a faccia con i magistrati italiani, e con quelli albanesi venuti in trasferta a Catania, per provare a chiarire la sua posizione. A partire dall’indicazione di quello che per Habilaj sarebbe il vero capo della banda che faceva affari con i clan mafiosi siciliani. «In Albania – si legge in uno dei verbali – tramite Celaj Sabaudin conobbi tale Fatosh, che è un grosso trafficante di marijuana e mi propose di iniziare un traffico con la Sicilia». Attività che Habilaj ha ammesso di avere svolto. «Il primo viaggio di cui mi sono occupato è stato nel 2013, poi concluso con il sequestro ad Augusta di oltre 1500 chili di marijuana. Io in Sicilia ero venuto nel 2006 e prima facevo il muratore, poi ho cominciato a fare il trasporto di prodotti ortofrutticoli al mercato di Vittoria».
Per il loro assistito gli avvocati hanno chiesto anche l’esclusione dell’aggravante dell’associazione di dieci o più persone e la concessione del minimo della pena con il riconoscimento delle attenuanti generiche. Uno dei tanti misteri legati a questa vicenda, degna di una spy story, è l’acquisto di una partita di gioielli effettuato nel 2013 da Habilaj in una gioielleria di Catania. A raccontare questo passaggio è stato lo stesso imputato in un’intercettazione finita agli atti dell’inchiesta: «Uno l’ho comprato alla madre e uno alla moglie, di 4000 euro di diamanti». Secondo la ricostruzione degli inquirenti quei preziosi sarebbero stati dei regali per l’ex ministro Tahiri. Ipotesi smentita sia dal politico albanese che dallo stesso Habilaj, che ai magistrati ha indicato il misterioso Fatosh come il reale beneficiario.
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