Dimenticare Santapaola

“Sono Vincenzo Santapaola…”. La lettera pubblicata giovedì 9 ottobre a pag. 37 del quotidiano “La Sicilia”, senza un rigo di commento, induce a porsi alcune domande. Viene da chiedersi, innanzi tutto, se ci sono precedenti. A quanti dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis è stato concesso di far pressione sugli organi giudiziari competenti appellandosi all’opinione pubblica? Quel che è normale e civile nei casi giudiziari controversi, allorché la pubblica proclamazione di innocenza appare come un diritto inalienabile dell’imputato, finora è stato negato ai macellai di Cosa nostra. Adesso un elementare spirito di equità dovrebbe far sì che l’iniziativa del direttore de “La Sicilia” inauguri una stagione in cui le “lettere dal carcere” e i più svariati appelli dei Totò Riina, dei Bernardo Provenzano o dei Ciruzzo ‘o milionario trovino convinta ospitalità sui quotidiani nazionali.

Non che, a proposito del 41 bis, siano mancate le prese di posizione in senso garantista. Quando, sull’onda emotiva suscitata dalla strage di Capaci (1992), la precedente legislazione d’emergenza fu estesa ai detenuti per reati di criminalità organizzata, l’opposizione si limitò in verità a poche voci. Ma le proteste divennero più consistenti e le voci “di dentro” si fecero sentire allorché, nel decennale degli assassinii di Falcone e Borsellino, il Parlamento stabilì di renderla permanente. Mentre si discuteva la proroga della legge, Leoluca Bagarella, in teleconferenza durante un processo a Trapani, lesse un comunicato contro il 41 bis in cui accusava i politici di non aver mantenuto le promesse. Venne anche resa pubblica una lettera firmata da 31 boss mafiosi con alcuni avvertimenti ai loro avvocati che, diventati parlamentari, li avevano dimenticati. Di conseguenza fu persino assegnata una scorta ad alcuni di questi avvocati e al senatore Marcello Dell’Utri (quest’ultimo com’è noto vi rinunciò).

In tutte quelle occasioni nessuno dei grandi quotidiani nazionali si diede la pena di pubblicare i testi integralmente e senza commenti, ma l’informazione era un dovere. D’altra parte, relativamente ai casi individuali, per drammatici che siano (come terribilmente drammatici sono la detenzione e l’isolamento), la riforma del 2002 ha stabilito che la facoltà di proporre l’impugnazione spetta in primo luogo al detenuto che può esercitarla rivolgendosi al tribunale di sorveglianza. La riforma del 2002 ha incrementato il potere di annullamento del 41 bis da parte dei tribunali di sorveglianza. Nella nuova legge il Ministero della Giustizia non ha nessuna facoltà di ricorrere in Cassazione a seguito dei provvedimenti di annullamento. Il Tribunale de l’Aquila, con decisione dell’11 giugno 2004, ha revocato il decreto applicativo del 41 bis a persona condannata per l’omicidio del giudice Livatino. Uno degli esempi più eclatanti è la revoca del 41 bis per il boss Nino Madonia, membro di una delle famiglie mafiose più influenti di Palermo, condannato per moltissimi reati tra cui l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del commissario Ninni Cassarà. Il capomafia palermitano ha impugnato il regime carcerario previsto dalla nuova norma e i magistrati avevano accolto la sua istanza. Nel giorno dell’ anniversario della morte di Chinnici, Angelino Alfano annunciò il ripristino della misura. Conviene ricordare che tra i boss ai quali è stato revocato il 41 bis ci sono Giuseppe La Mattina, uno dei mafiosi che uccise Paolo Borsellino, Giuseppe Barranca e Gioacchino Calabrò che si occuparono delle stragi del 1993, e tanti altri.

In cosa consiste dunque l’opportunità giornalistica della pubblicazione integrale della lettera dal carcere di Santapaola jr.? Che non nomina mai il padre, che tace sulla tragedia dell’assassinio della propria madre da parte di Giuseppe Ferone detto Cammisedda, intenzionato a vendicare l’uccisione del padre e del figlio ad opera di sicari dei Santapaola? Sullo sfondo di questa storia di orrori che il lettore de “La Sicilia” non è tenuto a conoscere (tanto più se è un lettore esclusivo de “La Sicilia”) emerge la protesta di Vincenzo per l’abuso del nome della sua “famiglia”, la sua implorazione ad essere considerato come una “persona normale”, un “uomo qualunque”. Allora come si spiega una scelta giornalistica, che offende – è ovvio! – i familiari delle vittime di mafia, ma offende soprattutto il senso comune della maggior parte dei catanesi?

Una chiave per comprenderla forse c’è. Giacché la lettera di Vincenzo Santapaola, più o meno concordata coi suoi avvocati, tra le righe dei ben comprensibili argomenti di difesa individuale che verranno vagliati in altra sede dai magistrati, contiene un messaggio culturale molto forte, che non può essere sottovalutato. “Ebbene, purtroppo debbo constatare – scrive – che il nome che porto è per me (come per mio fratello Francesco) una continua fonte di guai, a causa di persone, che, anche senza conoscermi, anzi nella quasi totalità senza conoscermi, usano e abusano del mio nome e di quello della mia famiglia. E ciò avviene quotidianamente in questa città, che non riesce a dimenticare pagine di cronaca e di storia ormai lontane e chiuse”.

La cosa che colpisce di più è questo invito a dimenticare. Ci dica allora il direttore de “La Sicilia” cosa dobbiamo dimenticare e cosa no.

*Docente di Storia  contemporanea
Facoltà di Lingue – Università di  Catania

Luciano Granozzi

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