Dieci giorni di luce, dieci giorni di tortura Il museo dell’Ebrat, la lezione di Khomeini

Cerco di immaginare Tehran prima della rivoluzione del 1979 e vedo confusione allegra, scambi, avventure che aspettano di essere vissute, amori, minigonne cabaret con ragazze prorompenti che ballano la danza del ventre, donne al mercato con capelli neri e folti e seni turgidi stretti in reggi seni a cono. E poi vedo anche la Savak. La polizia del terrore, il servizio segreto che ti faceva diffidare e denunciare persino tua madre e i tuoi fratelli, talmente ti torturava. Un re debole autoproclamatosi imperatore, considerato dittatore, seviziava e tendeva trappole a chi non aveva nessuna storia o complotto da raccontare.

Un giorno in cui mi sono persa tra le infinite strade di Tehran mi sono imbattuta in un museo. Ne avevo visto la pubblicità in tv, era l’anniversario dei dieci giorni sacri in cui Khomeini era venuto finalmente in Iran a salvare un disgraziato popolo credulone, i cosiddetti dahe fajr, i dieci giorni di luce, successivamente chiamati dagli iraniani, ormai consapevoli del grande errore commesso, dahe zajr, i dieci giorni di tortura. La pubblicità invitava tutti ad andare in particolar modo i bambini e le scolaresche. Mi sono detta «ma sì, entro!». All’ingresso in un chioschetto bivaccava un soldatino che mi chiede se ho con me macchina fotografica, videocamera o smartphone e se sì avrei dovuto consegnarli a lui. Non era permesso fare foto o riprendere. Consegno la fotocamera protestando, tra tutti i musei in cui ero stata a Tehran era l’unico che mi vietata di fare foto. Il soldato mi chiede «Signorina, lei sa in che museo sta entrando? Sa di che si tratta? Se non lo sa capirà una volta entrata, mi dia la fotocamera e paghi il biglietto».

Entro incuriosita e ho subito un sobbalzo: una macchina americana nera, credo una Dodge, in piedi un alto ufficiale e un altro seduto dentro in una postura talmente verosimile che ho stentato a capire che erano delle statue di cera. Un corridoio mi porta in un cortile interno circolare; alzando lo sguardo vedo delle ringhiere che ingabbiano totalmente i balconi dei vari piani, fino all’ultimo. Mi unisco ad un signore che faceva da guida ad altri quattro signori. Un ragazzo passando dice: «Comincia il film, venite!». Lo seguo confusa, non capisco ancora dove mi trovo. Entro in una sala da cinema e mi siedo, mi guardo in giro e scorgo solo ragazzi barbuti con parka che mi guardano di sottecchi. Comincia un documentario di testimonianze di donne e uomini che hanno perso i loro figli perché rapiti seviziati e giustiziati dal Savak, di persone che avevano subito loro stesse torture e raccontano nei minimi dettagli le sofferenze e i metodi di tortura.

Finisce il documentario, ho lo stomaco sottosopra, mi riunisco alla guida che si rivela essere un sopravvissuto a torture che sono avvenute proprio lì, in questo maledetto museo degli orrori dove mi sono andata ad infilare. Visitiamo celle con statue che riproducono perfettamente persone veramente esistite, con nome e cognome in pose che riproducono a loro volta torture allucinanti, scosse elettriche ai piedi, caschi dove infilare la testa bagnata per poi avere una scarica elettrica, gabbie di ferro attaccate alla presa di corrente per diventare roventi con un disgraziato rannicchiato dentro, in piedi sempre qualche omaccione incravattato con gli occhi fuori dalle orbite. Mentre nauseata esco in uno dei balconi ingabbiati per poter respirare, sento una presenza sopra la mia testa, urlo spaventata dopo aver visto un uomo appeso per i piedi che penzola sulla mia testa. «Diamine, ma sono folli!» Dietro di me i ragazzini ridono, una infinita scolaresca gira divertita per il museo.

Sento urla e lamenti in sottofondo e decido di seguire le voci. Mi ritrovo in un corridoietto tappezzato di foto minuscole di donne e uomini, vittime della Savak. Seguo ancora le urla, provengono dalle docce, un uomo mi spiega che alle donne era permesso andare in bagno una volta al giorno, potevano lavarsi al massimo una volta alla settimana e mangiavano solo una volta al giorno. Le docce erano solo con acqua fredda e le guardie si divertivano ogni tanto con gli idranti. Mi racconta che venivano presi principalmente perché troppo osservanti della religione, tacciati di fanatismo, alcune donne perché si coprivano col chador, sospetti su sospetti di macchinazioni e complotti contro lo Shah. Dice che a quei tempi si aveva paura di poter dire persino ai propri amici di non essere d’accordo su qualcosa che riguardasse la famiglia Pahlavi, dovevi aver paura perfino che  tua sorella o tuo fratello ti tradissero.

Molti dei seviziati erano leader religiosi, mullah. Il povero Pahlavi, che aveva una paura tremenda di Khomeini, non sapeva che lui invece faceva arrivare i suoi discorsi e i suoi messaggi ai suoi seguaci mediante musicassette di musica iraniana. E quindi finì che tutto quel darsi da fare tramite la Savak, si rivelò inutile visto che gli iraniani a casa loro in tutta tranquillità venivano imbevuti e preparati all’arrivo e alle mosse di Khomeini tramite i suoi discorsi. Alla fine uscii, piegata dal mal di stomaco.

Arrivata dal soldatino gli chiedo la fotocamera, lui con un sorriso crudele mi chiede «Ti è piaciuto, straniera?». Gli tolgo la fotocamera e vado via senza rispondere, la mia lingua avrebbe potuto causarmi danni e non era il luogo adatto. Il museo dell’Ebrat (lezione) mi aveva dato veramente una bella lezione: ogni regime ha il suo organo di servizi segreti che tortura vittime innocenti e mira alle giovani menti dei bambini per creare degli automi senza cervello che possano perpetrare sevizie e torture nel tempo.

[Il post originale è su Roozegar. Foto di Abbas/Magnum]

Sanaz Alishahi

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