Sembra un circo, eppure non è finzione. All’ingresso del porto di Catania i locali sparano musica spagnola a tutto volume, tormentoni di estati passate che ancora fanno ballare. La storia cambia in fondo, al Molo di levante, dove si sentono solo i rumori di un gruppo elettrogeno e delle dirette dei giornalisti nazionali. Lo sbarco è in corso. Dopo cinque giorni, quasi sei, tutte le persone a bordo della nave Diciotti della guardia costiera vengono fatte scendere. Quasi ci si stupisce dell’ordine con cui si mettono in fila i migranti: sul ponte dell’imbarcazione che è stata casa loro, piegano le coperte termiche e i cartoni. Sembra che facciano le valigie eppure le uniche cose che hanno con sé, quando passano l’ultimo gradino della scaletta che li separa dalla terra, sono le buste della Croce rossa con il kit minimo di sopravvivenza. Acqua, da mangiare. Prima che mettano piede a terra, si fermano per lo scatto della fotosegnalazione, che servirà per identificarli.
Al porto, passata l’una del mattino, si alza un vento freddo che porta con sé sia la musica sia le voci degli attivisti rimasti ad attendere. Due soccorritrici della Croce rossa aiutano a camminare un uomo così palestrato – aggettivo che il ministro dell’Interno Matteo Salvini (indagato dalla procura di Agrigento) ha usato per descrivere i migranti – che ha difficoltà a reggersi in piedi. Loro hanno le mascherine, lui una maglia bianca e un paio di pantaloncini. Sarà portato in Albania, in Irlanda o in una chiesa: sono il Vaticano e gli altri due Paesi ad avere detto, unici, che li accoglieranno. I 27 minori non accompagnati, i primi a mettere piede a Catania, sono nelle comunità della provincia. I sei uomini e le sei donne portati giù nel tardo pomeriggio di oggi, invece, sono in ospedale. Ci sono due casi di sospetta tubercolosi e le ragazze raccontano di avere subito ripetuti abusi sessuali. A bordo erano rimaste cinque donne che non avevano voluto abbandonare sulla Diciotti le persone a cui volevano bene: sono a terra anche loro, adesso.
Tutti tirano un sospiro di sollievo. Compresi gli attivisti antirazzisti che per cinque giorni hanno presidiato il molo. Un ragazzo sulla ventina batte i denti avvolto in una coperta termica, seminudo, mentre si spalma addosso quintali di Amuchina. È uno degli otto manifestanti che si sono gettati in mare, tra le barche ormeggiate, con l’obiettivo di raggiungere a nuoto la nave Diciotti. «Siamo arrivati a circa venti metri, poi ci siamo fermati – spiega – Le forze dell’ordine ci hanno scortati in barca fino alla riva». Nessuno di loro è stato fermato. «Come stanno le ragazze?», domanda un altro dei nuotatori. «Le ragazze» sono le militanti finite in ambulanza per via dei colpi di manganello presi durante la carica di carabinieri e polizia. In totale, i feriti tra i partecipanti alla protesta anti-Salvini sono tre: c’è anche un minorenne, che ha lasciato per terra una grossa pozza di sangue in corrispondenza con dove poggiava la testa prima che i volontari della Misericordia lo caricassero sulla barella.
La fila di migranti dall’imbarcazione della guardia costiera continua a defluire con calma. Un passo dopo l’altro, la fotografia, la busta, la mano sulla spalla, la parola di conforto. Quanti di loro saranno rimpatriati? Troppo presto per dirlo. La musica dei locali ricomincia più forte. «Fuggire? Sì, ma dove?». Di questi tempi, la domanda è lecita.
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