Cara Redazione di Step1,
in qesti giorni ho letto due commenti disparati: il primo riguarda gli anatemi del ministro Gelmini contro i fuori corso (commento n. 33 all’articolo “La stagione del nostro malessere”); il secondo è quello del ministro Rotondi contro la pausa-pranzo, rea di costringere il nostro paese a una tempistica biblica. Perché mai questi governanti ce l’avranno con la lentezza, mi chiedo io, svegliandomi da una pennichella pomeridiana.
Voglio raccontarvi due storie. La protagonista della prima si chiama Olga. Studia lettere classiche a Catania e poi a Roma, dove si laurea al quinto anno abbondante, cioè fuori corso. Nonostante questa terribile macchia sul suo curriculum, procede gli studi: a Cambridge fa un master e poi un dottorato (che finisce sei mesi fuori corso). Poi prende una borsa di ricerca e si mette a scrivere un libro (che ancora non ha finito ed è dunque anch’esso fuori tempo). Malgrado questo, quella gran battifiacca di Olga diventa professore a contratto a Cambridge per due anni (a malapena riuscendo a finire le lezioni entro l’ora).
Al culmine di questa carriera invece di ingranare la quinta decide di prendersi una pausa con un ‘sabbatico di riflessione’: si mette a scrivere un altro libro e a fare un altro lavoro, che non sa quando finirà. Intanto, per non essere da meno della sua fama di lumaca, si trasferisce in una città dove il mezzo di spostamento più veloce è un’imbarcazione a remi. Qui, mentore Iosif Brodskij, medita frattanto sul rapporto tra tempo e spazio (scorre più lento il tempo sull’acqua? Spera di sì).
La seconda storia ha per protagonista una ragazza che chiameremo Piera. Anche Piera studia lettere classiche. Dà tutti gli esami dell’anno in corso, prendendo sempre trenta o trenta e lode. Si laurea alla prima sessione possibile con una tesi molto buona. Vorrebbe provare il concorso di dottorato nella sua università ma non si sente all’altezza, vorrebbe aspettare e studiare di più. Un docente ben intenzionato le dice «Se non lo vince una come te il dottorato chi lo deve vincere?» Piera va dunque a fare il concorso due mesi dopo essersi laureata.
Non lo passa. La sua prova di concorso è mediocre. Piera, schiacchiata da questo insuccesso, abbandona l’università e adesso fa la mamma a tempo pieno. Quando le chiedo perché non ha provato di nuovo mi dice che era stanca di fare tutto alla velocità massima e sempre prima. Ci ha messo tre anni a riprendersi dalla delusione del concorso non vinto e ora non vuole ricominciare.
Olga, che ha frequentato l’ambiente delle università dorate britanniche, sa che nel regno della produzione ai massimi livelli la pausa pranzo è istituzionalizzata. Essere docente o ricercatore in un college a Oxbridge vuol dire innazitutto avere diritto a pasti in comune con gli altri docenti, seguiti dal tè sprofondati su poltrone di pelle davanti al caminetto. Chi deve insegnare scappa via, chi non deve insegnare rimane a ciarlare di politica, tempo e lumache. In Inghilterra, dove – come si sa – non si va troppo per il sottile con la qualità del cibo, sanno anche che un cervello a stomaco vuoto è un cervello che produce poco. E si sono attrezzati da secoli perché la pausa-pranzo non fosse solo sandwich divorato davanti al computer.
I ministri del nostro governo dovrebbero avere meno adorazione per la velocità. Laurearsi in corso non funziona per tutti e l’università italiana è un grande modello perché permette a menti diverse di fare percorsi a velocità diverse. Premiare l’efficienza e la puntualità è giusto, ma non bisogna rendere più difficile il percorso di coloro che fanno le cose con i loro tempi. A Cambridge (dove non è possibile non laurearsi al terzo anno e non sostenere a giugno di ogni anno esami finali uguali per tutti, irripetibili e con date inderogabili) ho conosciuto esempi mirabili di velocità e genialità, ma anche persone che sono finite a psichiatria perché non ce la facevano a sostenere i ritmi imposti dal sistema; e studenti di grandissima intelligenza il cui soffermarsi sulle cose e cercare di farle coi propri tempi è stato frainteso per incapacità intellettuale.
I ministri del nostro governo dovrebbero avere più rispetto per la lentezza e i suoi risultati. Lo sapeva bene chi – nel lontano 1994 – aveva scritto su un muro di via San Giuliano a Catania un misterioso, poetico Dammi tempo ca ti perciu. Ci riuscirà il verme a bucare la mela? Olga lo sperava ogni volta che ammirava l’allusivo graffito andando a lezione ai Benedettini nel lontano 1994-1995: quando le mele erano ancora verdi, i vermi conoscevano l’arte dell’attesa, e le lumache erano vere lumache.
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