Di me cosa ne sai, il giallo del cinema in Italia «Immagine addomesticata del Paese»

Poco più di un’ora per «leggere in filigrana, attraverso questioni apparentemente solo cinematografiche, le vicende politiche e culturali del Paese». Così  il regista Valerio Jalongo descrive Di me cosa ne sai. Uscito nel 2009, diretto in collaborazione con Francesco Apolloni e Giulio Manfredonia, prodotto da Ameuropa International e Cinecittà Luce, il documentario sarà proiettato per la prima volta a Catania questa sera al cinema King alle 20.15 per la serata La morte del cinema (tra indagine e amarcord) organizzata da CTzen in collaborazione con il Cinestudio. Quasi un giallo, che parte da una domanda: «Perché nessuno si è chiesto il motivo della grande fuga dei tre maggiori produttori italiani negli anni ’70?». La risposta si snoda tra le interviste d’archivio a Federico Fellini, l’ascesa politica e imprenditoriale di Silvio Berlusconi e la sua televisione commerciale, le testimonianze dei registi di ieri e di oggi. «Per capire cosa è successo alla cultura italiana negli ultimi trent’anni dal punto di vista del cinema», spiega Jalongo.

Lo spartiacque del documentario tra il prima e dopo è il 1975. L’anno della morte di Pierpaolo Pasolini ma anche l’inizio della fuga dall’Italia dei grandi produttori di cinema italiano: Dino De Laurentiis, Carlo Ponti e Alberto Grimaldi. La metà degli anni ’70 si lascia alle spalle un periodo di splendore, in cui Cinecittà era paragonabile ad Hollywood, «in competizione con le major statunitensi e spesso primo esportatore». Fellini, simbolo degli anni d’oro della settima arte made in Italy, «raccontava l’Italia in modo originale – dice Jalongo – Il cinema era forte, vitale, anche polemico, capace di attaccare la classe dirigente anche in forme popolari come la commedia». Il futuro, dopo quel 1975, appare invece sempre più grigio. L’Italia vive gli anni di piombo, il terrorismo, «la politica ha bisogno di normalizzare il Paese», analizza il regista. Negli archivi Usa stanno a prendere polvere, invenduti, dosi di anestetico di massa sotto forma di film lontani dalla tradizione italiana. Il primo a renderli popolari è Silvio Berlusconi, non pioniere ma imperatore della televisione privata. «Si vendevano anche mille film al giorno, un ritmo che ha distrutto l’industria cinematografica nostrana insieme all’abitudine ad andare al cinema».


Il trailer del documentario Di me cosa ne sai

A cambiare è anche la cultura degli italiani. «Prima, con i ritratti feroci e la satira morale, il Paese era più libero e in grado di ricevere un’immagine di se stesso più profonda e complessa». Dopo, l’appiattimento. Una schiavitù economica, innanzitutto, che secondo Jalongo ha creato un’arte asservita alla tv: «Senza i soldi di Rai Cinema, oggi, il cinema italiano non esisterebbe». Sono scomparsi o lottano duramente per emergere i produttori indipendenti, capaci di scelte coraggiose. A questo si aggiunge un impoverimento creativo, «dovuto al monopolio, a un mercato ingessato e con poche voci – non ha dubbi il regista – Ci si confronta con i funzionari, ministeriali e televisivi, e non c’è la libertà di andare a bussare a un’altra porta per fare il film che vuoi».

Insieme alle storie, ai personaggi, agli sviluppi cambiano anche i modi di esprimerli sul grande schermo. Indagine che Di me cosa ne sai non dimentica di approfondire. Il documentario è infatti girato dai 35mm al cellulare, «per una riflessione su come sono cambiati i linguaggi dall’epoca del cinema al digitale». Una rivoluzione che investe tutta Italia, da Nord a Sud, con sempre meno sorprese. «Le differenze, pian piano, sono sempre minori, un po’ dovunque ormai si assiste alla chiusura delle sale nei centri storici anche a causa dei multiplex». Un’occasione per gli imprenditori che vedono ormai impensabile costruire un centro commerciale senza un multisala. «Ma questo danneggia i film di qualità, che anche nei multiplex vanno male, e diseducano il pubblico, soprattutto quello giovane che, non avendo occasione di vedere certi film, finisce per non avere più propensione a vederli». Ancora una volta è il Sud a portare la maglia nera. «Perché il tessuto sociale è meno ricco di associazioni culturali e di partecipazione attiva delle pubbliche amministrazioni nel contrasto del fenomeno».

Questi e altri difetti della cultura del Paese cerca di proiettare sul grande schermo, come fosse uno specchio, il documentario Di me cosa ne sai. Una trasformazione in negativo in cui gioca un ruolo non trascurabile l’informazione. Non a caso, a chiudere il documentario, è un inserto d’archivio di Clemente Mimun. Per capire, conclude Jalongo, quanto «un’immagine dell’Italia meno coraggiosa e controversa sia anche causa di un cinema addomesticato».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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