Tra mafia e terrorismo possono esserci rapporti ed esistono analogie. A dichiararlo è stato, questa mattina, Nino Di Matteo. Il magistrato palermitano, impegnato in prima linea nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia, è stato ospite della trasmissione Storie Vere, in onda su Rai Uno. Sull’emergenza terrorismo e sul possibile coinvolgimento della criminalità organizzata come partner commerciale, il pubblico ministero ha fatto riferimento alla ‘ndrangheta «che controlla il mercato delle armi» e che come dimostrato dalla storia «se dovesse intravedere la possibilità di fare business con il traffico d’armi non si porrebbe mai il problema dell’utilizzo» delle stesse. Anche se al momento «non ci sono elementi che possano comprovare contatti tra Isis e criminalità organizzata». Dal magistrato, poi, anche un riferimento indiretto al recente dibattito circa la presunta funzione deterrente che la mafia potrebbe avere al Sud nei confronti del terrorismo. Di questo parere si è detto il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava: «Mi è capitato di constatare che alcuni cittadini si siano convinti che in Sicilia e Calabria certi attentati non potrebbero mai accadere perché il territorio è controllato dalla mafia – ha aggiunto il pm -. Questo è molto triste perché significa che guardano alle mafie come un contraltare rispetto al terrorismo e alla possibilità di attentati». Mentre tra le due realtà, secondo Di Matteo, ci sarebbero perlopiù analogie soprattutto «se si considera la strategia della paura». Come nei casi degli attentati del 1993 a Firenze, Roma e Milano.
Il magistrato ha poi parlato delle minacce alla propria sicurezza: «Tante volte nei processi per le stragi di Capaci, di via d’Amelio e quella in cui morì il giudice Chinnici – ha detto Di Matto – mi sono trovato a cercare, da pubblico ministero, la prova di un mandato di Riina». Ricerca che verrebbe meno nel caso di un attentato ai suoi danni, perché a dichiarare di volere la morte del magistrato è stato lo stesso ex capo di Cosa nostra, intercettato nel 2013 all’interno del carcere di Opera mentre parlava con il compagno d’aria Alberto Lorusso: «Non sono minacce – ha commentato Di Matteo – perché Toto’ Riina non aveva nessun sospetto di essere intercettato in quel luogo. Sono delle esternazioni di una volontà di condanna a morte». Già a settembre, il magistrato – per il quale da tempo a Palermo si troverebbe una quantità ingente di tritolo – già negli scorsi mesi aveva ammesso il senso di solitudine che lo circonda e che ha dato vita in lui a «una brutta sensazione». Davanti alle telecamere, Di Matteo ha poi ammesso che non consiglierebbe ai figli di fare il magistrato ma che poi «se lo facessero ne sarei felice perché tutto sommato è un mestiere cosi esaltante come qualunque mestiere finalizzato a cercare la verità dei fatti. E questo Paese ha un disperato bisogno di verità».
Ultima battuta, infine, sulla recente condanna della mafia da parte di papa Bergoglio. Posizione che, tuttavia, non sarebbe altrettanto netta nella restante parte del clero: «L’auspicio è che la Chiesa segua l’esempio del pontefice perché ancora oggi – ha concluso Di Matteo – troppi parroci non denunciano come invece dovrebbero, le pressioni e i condizionamenti della mafia».
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