Dopo la lunga intervista al professor Giacomo Pignataro, Step1 torna ad occuparsi della discussione sulla riforma dello Statuto d’Ateneo. In seguito alla nomina in fretta e furia della Commissione Statuto, i membri “dissidenti” del Senato accademico avevano annunciato un ricorso al TAR. Il ricorso non è stato ancora presentato. Nel pomeriggio di lunedì 28 febbraio si è tenuto un incontro – sollecitato dallo stesso rettore – tra il professor Antonino Recca e i presidi delle facoltà di Economia, Giurisprudenza, Lingue e Scienze politiche.
Il professor Vincenzo Di Cataldo ha accettato di incontrarci per chiarire ulteriormente le ragioni del suo dissenso. «Il Magnifico ha proposto una sorta di tregua», spiega il Preside di Giurisprudenza. «Si tratta di vedere se è possibile trovare un’intesa contenuti alla mano. La Commissione può anche rimanere quella che è, non è fondamentale ridisegnarla. Dobbiamo però verificare, e speriamo che ci si arrivi, l’esistenza di un progetto condivisibile, sia sul piano delle procedure che su quello dei contenuti».
Secondo lei ci sono margini affinché questa “ricucitura” si realizzi?
«Francamente lo spero, ritengo che sarebbe possibile. In realtà nessuno di noi ha capito le ragioni della posizione del Rettore su procedure e contenuti. Intendo, di quel poco di contenuti che s’è visto finora. Basta guardare il primo verbale della Commissione Statuto, che sembra formulare una proposta che neanche in Libia oggi si accetterebbe: il Rettore sceglie da solo tutti i componenti del CdA, esterni ed interni. Perché mai l’Università di Catania dovrebbe adottare un modello assolutamente monocratico, va al di là delle mie capacità di comprensione. Ma mi pare che commenti analoghi siano stati assai numerosi in Ateneo».
Non c’era da aspettarselo?
«No, e non riusciamo a vedere nessuna ragione. I presidi e l’intero Senato accademico si sono sempre mossi in uno spirito di massima collaborazione, non ci sono mai state spaccature precostituite. Anche la scelta dei tempi ci ha molto stupiti. Il Rettore, a dicembre, aveva detto che non c’era nessuna fretta per la nomina della Commissione e che quindi si sarebbe avviata una riflessione ampia e non frettolosa. A gennaio, improvvisamente, tutto è diventato urgentissimo. Aveva anche detto che la Commissione sarebbe stata concordata, invece così non è stato. Inoltre, ha scartato la possibilità, da lui stesso anticipata, di far stilare dal Senato delle linee guida per la stessa. Il Rettore aveva anche assicurato che la Commissione avrebbe “sempre” operato in presenza di Senato e Consiglio di Amministrazione, mentre invece (se sono bene informato) sembra che la Commissione farà solo delle riunioni preliminari, definite “informali”, con gli organi d’Ateneo e dopo opererà da sola ed in totale autonomia. Ciascuna di queste posizioni può avere una sua ragione, ma passare da una all’altra in così poco tempo, e senza motivazione, è incomprensibile».
Secondo lei, c’è una ratio di fondo che possa spiegare un simile comportamento?
«Prescindendo da motivazioni personali, la mia impressione è che il rettore Recca si veda già con le prerogative che – secondo lui – dovrebbe avere il rettore post Gelmini: una specie di dominus assoluto. Molti pensiamo che, almeno adesso, il Rettore non sia nulla del genere, pensiamo che sia solo (come lui stesso ama a volte definirsi) un “coordinatore” del Senato accademico. In ogni caso, l’attuale Rettore (e questo vale per tutte le Università italiane, oltre che per la nostra) non potrà continuare ad essere il rettore post-riforma, se non per un tempo minimo. Come che sia, con l’entrata in vigore il nuovo Statuto, gli attuali Magnifici dovranno passare la mano. Risulta quindi difficile comprendere l’insistenza con la quale gli attuali rettori, compreso il nostro, puntano a governare monocraticamente un processo di adeguamento degli statuti alla legge che, invece, dovrebbe essere ampiamente partecipato».
Eppure proprio il nuovo Statuto dovrebbe scongiurare derive di questo tipo.
«La riforma Gelmini, in effetti, attribuisce molti poteri al Rettore. Ma credo che lo Statuto, se si vuole operare decorosamente, con un minimo di attenzione per tutte le componenti di questa cosa complicata che è l’Università, non dovrebbe accrescere i poteri monocratici del Rettore, ma se mai bilanciarli, nei limiti del possibile».
Ad esempio?
«Non è scritto da nessuna parte che le nomine del CdA debba farle, discrezionalmente, il rettore. La legge non lo prevede. Quindi non ha nessun senso che lo Statuto lo sancisca. Dovremo discutere molteplici proposte alternative, coinvolgendo tutti. Si potranno prevedere meccanismi di votazione e di designazione. Potrebbe valere un sistema rappresentativo, magari affidato ai direttori di dipartimento… Insomma, esistono diverse possibilità, da prendere tutte seriamente e serenamente in considerazione, prima di sceglierne una. Tornando alla richiesta di concordare la composizione della Commissione Statuto con i presidi, ciò non voleva dire che il preside avrebbe scelto chi voleva lui. Se non è onnipotente il rettore, tanto meno lo è un preside. I presidi avrebbero dovuto coordinarsi con le proprie facoltà. Se poi diciamo “tanto i presidi stanno per sparire”, allora si vadano a sentire i direttori di dipartimento che, prossimamente, avranno maggiori responsabilità di coordinamento. La totale autonomia di scelta da parte del Rettore è del tutto fuori da ogni logica».
Come imposterebbe lei il problema delle garanzie rispetto a un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di pochi?
«Come linea guida più importante, il nuovo Statuto dovrebbe assicurare degli adeguati bilanciamenti ai rischi di strapotere. Il ruolo del rettore e degli organi di governo centrali andrebbe attentamente controllato, per garantire una guida efficiente senza grossi rischi di autocrazia. In altri termini, l’accentramento dei poteri in capo al rettore ed al consiglio di amministrazione dovrebbe essere bilanciato da adeguati contrappesi, e non è certo il caso di accrescerlo».
Diversamente da quanto accade oggi con l’esistenza delle facoltà, in Senato non siederanno tutti i direttori di dipartimento. Ciò non rischia di snaturare l’attuale funzione di indirizzo, propria del Senato Accademico?
«Sicuramente il pericolo c’è. Si tratta anzitutto di capire se la legge veramente impone questo. Se fosse così, non potremmo farci nulla. È comunque un peccato che in un Ateneo non sia previsto un organo in cui i rappresentanti di ciascuna mini-collettività organizzata siedano tutti assieme. Si potrebbe forse pensare a meccanismi rotativi, seguendo una turnazione dei vari dipartimenti. Oppure, con un accordo forte, si potrebbe fare in modo che gli altri componenti del Senato, cioè i rappresentanti dei docenti, siano i portavoce delle aree i cui dipartimenti non sono rappresentati. Bisognerà trovare dei meccanismi di equilibrio, attraverso la partecipazione, molta buona volontà e una valutazione delle alternative. I vantaggi di un serio dibattito collettivo e pubblico sono irrinunciabili».
C’è chi lamenta un serio deficit di democrazia all’interno dell’Ateneo.
«Secondo me la democrazia non è solo un problema morale, ma è anche una questione di efficienza. E’ dalle discussioni che nascono le soluzioni migliori. Anche la persona più capace del mondo, pensando da sola, avrà delle défaillance: non può vedere tutto. Fare in modo che una soluzione venga fuori da una discussione sufficientemente meditata, nella quale intervenga il numero più alto possibile di partecipanti, è il sistema più efficace e adeguato. Ne faccio una questione di efficienza, oltre che di etica».
Lo sbilanciamento tra area umanistica e scientifica è uno dei rischi paventati.
«Questo pericolo esiste sicuramente e bisogna stare con gli occhi aperti».
L’ingresso in CdA di membri esterni potrebbe aggravare il problema?
«Potrebbe dipendere anche da questo. Da questo punto di vista, l’idea del professor Renato Pucci sembra molto ragionevole. Il collega propone che la scelta dei componenti del Consiglio d’Amministrazione avvenga su aree diverse, proprio per evitare una concentrazione di interessi su una singola area. Si tratta di mettere assieme competenze, curiosità e propensioni diverse».
Altro nodo importante è come rendere la ricerca “appetibile” al di fuori dell’università.
«Dovremo cercare di rendere l’università più interessante per il mondo esterno anche attraverso interazioni e commesse, ma nello stesso tempo occorre far sì che l’Ateneo non “dimentichi” le aree le quali, non per propria incapacità ma per motivi oggettivi, non svolgono attività di ricerca in settori di interesse di possibili finanziatori esterni. Una politica universitaria seria si misura anche su questo».
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