Tanto vale prenderli a caso. A quanti sarà capitato di pensare che affidarsi alla dea bendata sarebbe meglio che proseguire con quei politici che promettono mare e monti, ma poi, dopo essere stati eletti, finiscono per deludere ogni aspettativa? Tra chi sostiene quest’idea, nelle ultime settimane rilanciata da Beppe Grillo e da molti interpretata come l’approdo dell’antipolitica, c’è anche il sociologo catanese Cesare Garofalo. Autore, nel 2012, del libro Democrazia a sorte. Ovvero la sorte della democrazia insieme agli economisti Maurizio Caserta e Salvatore Spagano e ai fisici Andrea Rapisarda e Alessandro Pluchino, Garofalo difende la tesi secondo cui l’introduzione del sorteggio all’interno dei meccanismi elettorali potrebbe migliorare la qualità degli organi legislativi, producendo al contempo effetti positivi anche sulla società e il concetto di cittadinanza attiva.
«Esistono precedenti storici e applicazioni anche recenti in più parti del mondo – spiega il sociologo a MeridioNews -. Nell’antica Grecia così come nella Repubblica di Venezia il sorteggio dei rappresentati era una modalità utilizzata e apprezzata. Ma anche in epoca contemporanea gli esempi sono tanti: in Islanda la costituzione è stata scritta da mille persone scelte a sorte, stesso discorso in Canada per le leggi elettorali del Quebec e della Columbia britannica. Oppure in California dove hanno istituito i deliberative opinion poll, procedimenti di formazione di decisioni collettive». Per Garofalo i vantaggi per la società sarebbero evidenti: «Sorteggiare le figure chiamate a dare un giudizio su una proposta di legge significherebbe affidare la decisione a persone svincolate dalle logiche di partito, soggetti che non subirebbero i condizionamenti di chi è costretto a cercare il consenso», continua il sociologo, che poi sottolinea come lo scenario immaginato sarebbe diverso sia dai referendum che dagli esperimenti di democrazia diretta online attuati finora dal M5s. «La maggior parte delle persone che va alle urne in occasione di un referendum è poco o per nulla informata in merito alla materia su cui è chiamato a esprimersi. Il processo decisionale da noi proposto prevede, invece, una fase dibattimentale obbligatoria e fondamentale per consentire alle persone di formare la propria opinione. Confronti – va avanti Garofalo – in cui verrebbero affrontate tutte le possibilità in ballo, dando voce a tecnici e portatori di interesse».
La proposta avanzata dal gruppo di studiosi non nega in assoluto la rappresentanza politica così come oggi la conosciamo. «I sorteggiati andrebbero ad aggregarsi a una componente eletta, tramite normali consultazioni – chiarisce Garofalo -. Si possono immaginare i due rami del parlamento entrambi interessati da questo meccanismo oppure stabilire che uno sia composto solo da persone elette e l’altro da figure sorteggiate. Sarebbe però importante garantire il ricambio di queste ultime, così da fare sì che i giudizi siano il più liberi possibile». Per chi nutrisse dubbi sulla capacità del caso di garantire una copertura adeguata della popolazione nel suo complesso, la risposta arriva dalla statistica: «Con un campione di tremila persone si riesce a prevedere in maniera quasi perfetta il risultato di un referendum sottoposto a decine di milioni di persone – spiega il sociologo -. Questo ci dice che la composizione dei rappresentanti sorteggiati sarebbe sufficientemente variegata da garantire la presenza in parlamento tanto di dottori che di casalinghe, giovani e anziani. E poi – rilancia Garofalo – mi lasci dire che non mi sembra che oggi a Montecitorio e palazzo Madama siano seduti molti operai, studenti o disoccupati».
Altro motivo che potrebbe fare storcere il naso ai difensori della democrazia rappresentativa così come comunemente conosciuta sta nel rischio di dare in mano le sorti del Paese a persone che, nella quotidianità, non manifestano interesse per la cosa pubblica. Oppure – richiamando l’anatema di Umberto Eco contro i social network – a chi si ritiene esperto di ogni campo del sapere, senza che tale autostima sia suffragata da adeguati studi o peggio si fondi sulle sempre più diffuse fake news. «Questi timori non tengono conto del concetto di ignoranza razionale, ovvero la decisione del cittadino di non documentarsi adeguatamente su un tema nel momento in cui è consapevole che farlo non creerebbe effetti concreti – commenta Garofalo -. In altre parole, un cittadino che sa che il proprio voto incide pressoché nulla nel complesso delle decine di milioni di preferenze che vengono espresse non è spinto a informarsi su ciò che succede. Se invece lo si mette nella condizione di potere decidere realmente, vorrà saperne di più».
Tra chi beneficerebbe di questa drastica riforma elettorale ci sarebbero anche i partiti. A riguardo Paolo Flores d’Arcais già anni fa ha fatto una proposta per bilanciare il peso dell’astensionismo. Per il direttore di Micromega, la percentuale di chi non va alle urne andrebbe rappresentata da cittadini nominati con il sorteggio. «Viviamo in un’epoca in cui non è possibile dire che il parlamento rappresenta la volontà della maggioranza dei cittadini – commenta Garofalo -. L’idea di Flores d’Arcais è stimabile perché spingerebbe i partiti a rigenerarsi, nella consapevolezza che tornando a occuparsi dei problemi collettivi e offrendo adeguate soluzioni porterebbero le persone a tornare a votare e così facendo – conclude il sociologo – si garantirebbero l’aggiudicazione di un maggiore numero di seggi».
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