«Senza parole». Non ne ha davvero più la famiglia Agostino, che dopo 30 anni aspetta ancora di conoscere la verità sul brutale omicidio del 5 agosto 1989. Quel giorno a morire sotto ai colpi dei killer armati da Cosa nostra sono l’agente Nino Agostino e la moglie Ida Castelluccio, che è incinta. Una scarica di proiettili che non lascia loro scampo, mentre sono davanti al cancello della villetta di famiglia a Villagrazia di Carini, dove fervono i preparativi di una festa di compleanno. «Rigettata»: è questa la parola che mette un punto nero come la notte a una storia che da 30 anni va avanti senza verità. Ad affermarla è il giudice per le indagini preliminari Marco Gaeta, che ha respinto la richiesta avanzata dalla procura generale, che nel 2017 ha avocato a sé il caso, di arrestare il boss di Resuttana Nino Madonia e quello dell’Acquasanta Gaetano Scotto: «Non ci sono sufficienti elementi». Questo il motivo che lo avrebbe spinto a mettere quel punto che oggi pesa come un macigno. E che ha generato sgomento nei familiari delle vittime e nel loro legale che da anni, ormai, si batte perché si faccia luce su questo delitto.
«Gli elementi c’erano», dice infatti l’avvocato della famiglia Agostino, Fabio Repici, rimasto sorpreso dalla decisione presa dal giudice Gaeta. «Non conosco le determinazione della procura generale, penso stiano valutando adesso questo provvedimento del gip, io non l’ho ancora letto. Eppure conosco il fascicolo della parte conosciuta fino all’ultima opposizione alla richiesta di archiviazione e – lo ribadisce – sono tutt’oggi convinto che c’erano tutti gli elementi perché si facesse il processo. Quindi il mio auspicio è che si riparta finalmente il prima possibile con questo maledetto processo». L’avocazione della procura generale era arrivata dopo la richiesta di archiviazione da parte della procura per l’indagine a carico di Madonia, Scotto e un terzo personaggio, entrato in scena successivamente: Giovanni Aiello, l’ex ispettore di polizia con un passato nei servizi segreti soprannominato faccia da mostro per via di alcune profonde cicatrici che gli deturpavano il volto, uscito fuori dai giochi, però, dopo la sua morte nell’agosto del 2017.
La sua figura emerse successivamente nelle indagini sul delitto: per l’accusa lui sarebbe stato l’uomo che avrebbe aiutato i killer a fuggire dopo l’omicidio. Solo che per quelle indagini, poi, i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene (praticamente il pool al completo impegnato nel primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia) chiesero l’archiviazione perché non era stato possibile giungere a «riscontri individualizzanti in termini di certezza probatoria sufficiente a esercitare proficuamente l’azione penale». Un finale che sembra ritornare anche oggi, con lo stesso immutato sapore amaro di allora. Aiello, intanto, è in servizio alla mobile di Palermo quando a dirigere quell’ufficio è Bruno Contrada, ma sarebbe stato in rapporti anche con un altro personaggio che si inserisce a gamba tesa in questa storia: l’allora ispettore Guido Paolilli, collega e amico dell’agente Agostino. Ma anche uno dei fedelissimi di Arnaldo La Barbera, che dopo il delitto lo richiama a Palermo dalla questura di Pescara, dove ha preso da tempo servizio, per indagare. È lui che perquisisce la casa dei coniugi assassinati, distruggendo alcuni importanti documenti. Un gesto accertato in sede giudiziaria ma prescritto.
A riprova di ciò, c’è anche una conversazione emblematica intercettata a casa dell’ex ispettore. È il 21 febbraio 2008 quando, poco dopo le 18, viene captata una conversazione tra Paolilli e il figlio, che sono in casa a guardare una trasmissione alla tv in cui sono ospiti i genitori di Nino Agostino. A un certo punto, in particolare, una giornalista raccontò che negli ultimi giorni di vita l’agente Agostino «si sentiva pedinato, a rischio, su un foglietto che è stato ritrovato nel suo portafoglio il giovane scrisse “se mi succede qualcosa cercate nel mio armadio“». Si accavallava la voce di Vincenzo Agostino che, in trasmissione, affermava che «dentro l’armadio sono andati a guardare alcuni poliziotti e allora io non ci credevo più». Proprio in quel momento, il figlio Guerino Paolilli, anch’egli poliziotto, consapevole della sua partecipazione alle prime indagini, chiedeva ripetutamente al padre: «Che cosa c’era là dentro? Che c’era in quell’armadio?». Esplicita e chiara la risposta del padre: «Una freca di cose, che… proprio… io ho pigliato e poi ne ho stracciato…». indagato per favoreggiamento in concorso aggravato nel 2008, procedimento che finisce archiviato. Distruggere quei documenti ha di fatto contribuito, secondo la famiglia Agostino, al depistaggio messo in atto per sviare le indagini e impedire che si scoprisse la verità sull’omicidio. Motivo per cui l’ex ispettore è stato citato dai famigliari dell’agente Agostino e dovrà presentarsi in aula il prossimo febbraio.
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