DAVID GILMOUR – On a Island

DAVID GILMOUR
ON AN ISLAND
(2006, Columbia)

Sono passati 38 anni da “A Saurceful Of Secrets” (suo esordio floydiano), 22 dal suo ultimo solo “About Face “ e 12 anni dal testamento spirituale dei Pink Floyd: “The Division Bell”. David Gilmour ha sin qui inanellato tanti anniversari che sono trofei da esibire, ma anche, è inevitabile, anni da tirare in avanti a mò di pallottoliere. La pubblicazione di questo On An Island, targato Marzo 2006, avviene in seguito alla notizia più dolorosa per i fan floydiani, ancora fradici del bagno d’emozioni di Hyde Park nel Live 8: i Pink Floyd si sciolgono definitivamente. Nulla è valso vedere David, Roger, Rick e Nick s’un palco dopo decenni; non è servito a molto mostrare al mondo intero che i brani eseguiti per il concerto di Geldolf, riuscivano perfettamente a conservare la loro intaccata magia e suadente bellezza. David ha detto no. Irremovibile la sua posizione su un futuro affrancato di quel nome pesante. I Pink Floyd muoiono così dopo anni di coma, e allora forse può apparire ingeneroso fare una così lunga premessa floydiana per parlare di “On An Island” di David Gilmour. Ma pare inevitabile per chi ancora ha il cuore in frantumi nell’ascoltare i lunghi serpenti di chitarra di David nei trentanni di Floyd. Lo show deve andare avanti, direbbe qualcuno e allora così sia, una volta per tutte.

Su un’isola per fuggire dai ricordi o forse per farli venire a galla. Su un’isola per aprire polmoni e cuore, per allontanarsi dalle baraonde cittadine. L’intero disco di David è un inno alla bellezza dell’isola greca di Castellorizo (ricordate il “Mediterraneo” di Salvatores?): gli orizzonti infiniti, il blu del mare, l’aria fresca da ingoiare, il cielo che si pittura di rosso nella notte, il paradisiaco sogno dell’esotico, il sorriso timido degli abitanti del luogo e l’isolamento quale punto di partenza per ricominciare. Senza volerlo, anzi si, abbiamo citato tutti i titoli dell’opera rock di Gilmour; senza volerlo, anzi si, David ha accostato il suo ultimo full length con le teste dell’Isola di Pasqua in “The Division Bell”. L’anima di Gilmour è sempre quella più melanconica e docile. Da sempre ha musicato le sue sensazioni con colori luminosi e forti. Ma il senso di perdita che caratterizzava quel disco del ’94 sembra essere scacciato via qui “sull’isola” di Castellorizo. Quindi, un passaggio importante, un superamento, una pagina svoltata. Ora non c’è più l’ossessione della “divisione”, ora è una vecchiaia dolce e in armonia a caratterizzare le dieci ballate trasparenti e acquatiche. La penna che interpreta le sue voglie sommesse ed i suoi slanci di poesia è quella della compagna Polly Sameson (autrice anche di buona parte delle liriche di “The Division Bell”) e ad accostarlo in questo viaggio rinfrescato dalle vegetazioni egee ci sono Richard Wright ed il suo organo hammond, i cori celestiali di Crosby e Nash e la partecipazione di Robert Wyatt.

L’attacco di Castellorizon offre emozioni, echi. Sono musicati dei gabbiani che sorvolano la terra, c’è la campana di “High Hopes” che incombe tra gli effetti fumosi, e poi un’apertura d’archi ed organo davvero vibrante. Manca solo lei: la Fender di Gilmour. La famosa sei corde non tarda, comunque, ad arrivare con tutta la sua forza evocativa. La piccola suite iniziale (“orizzonte di Castellorizo”) dà emozioni e ha il merito (nonché l’intento) di calare l’ascoltatore nelle atmosfere mediterranee del disco. Nella title-track, poi, ecco i cori di Crosby e Nash, tanto attesi, a innalzare il pezzo con la solita impressionante capacità al canto; il brano è oltretutto impreziosito dalla chitarra slide di Bob Klose (vecchio amico della Cambridge degli anni ‘60), che lega assieme alla presenza di Richard Wright, la musica di David al passato; The Blue, la cui armonica fa capolino sugli arpeggi sonnambuli e sui lunghi vocalizzi di David, viene buttata giù dal letto dalle ambizioni rock di Take A Breath, ma poi riaffidata al signor Morfeo dai gabbiani di Red Sky At Night.

Capitolo assolo di Gilmour: i lunghi e profondi virtuosismi di David hanno in se un po’ di schietto autocitazionismo. Chi infatti non conoscesse il disco e lo ascoltasse a “scatola chiusa” riconoscerebbe immediatamente il tocco proverbiale di Gilmour, la sua tecnica e le sue idee. Ma non c’è nulla da fare, anche se nulla di originalissimo, le sue corde così calde e mentali sanno ogni volta portare benessere e tepore. In “Red Sky At Night”, sono almeno due gli elementi che stupiscono l’ascoltatore: Gilmour al sassofono che modula come fosse la sua Fender e i corni espressivi di Robert Wyatt. Il passaggio di This Heaven col suo blues oscillante, Then I Close My Eyes, splendido il piano country, e la ballata acustica Smile ci conduce tra immagini, voli mentali, dipinti e foto attaccate alle pareti. A Pocketful Of Stones, poi, orchestrata dal polacco Zbigniew Preisner negli studi dell’Apple Records, e Where We Start chiudono un vero e proprio sogno ad occhi aperti.

Solo un sogno infatti potrebbe essere musicato da ballate così dense e immaginifiche, dove partecipano a corredo pianoforte, archi, chitarra acustica e voce trasognante. “On An Island” è un album completo: ci sono eco floydiani, c’è farina del sacco moderno di David, ci sono anni di esperienza e bravi musicisti. Così, non rimpiazzerà di certo nei cuori di milioni di fan il ritorno dei Pink Floyd, ma quantomeno potrà essere la malinconica e dignitosissima colonna sonora della caduta di quel sogno irrealizzabile.

 

Nota: buona parte delle registrazioni sono avvenute nello studio galleggiante Astoria, sulle rive del Tamigi.

Riccardo Marra

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