«Dare voce a chi non ha un nome»

Un docu-film sulla vita e le storie dei testimoni di giustizia: è un progetto ancora work in progress di Daniela Morozzi, attrice e regista toscana che ha deciso di girarlo dopo aver conosciuto la storia della testimone Piera Aiello. Un viaggio tra coraggio e paura, ma anche un modo per raccontare storie che «troppo a lungo sono rimaste nei cassetti». La regista presenterà in anteprima un trailer del suo lavoro, prodotto da DramaFirenze, oggi pomeriggio a Catania, nell’ambito di “La normalità della Testimonianza”, incontro-dibattito con i testimoni di giustizia organizzato dall’Associazione Antimafia “Rita Atria”. Step1 e Radio Zammù l’hanno intervistata.

 

Il titolo scelto finora, anche se non definitivo, per il suo docu-film è “Io ho un nome”. Di cosa parlerà in questo documentario?

«Delle storie dei testimoni di giustizia e più che parlare io, vorrei che parlassero loro e basta».

 

Chi sono i testimoni di giustizia?

«Sono delle persone che non hanno commesso nessun reato e decidono di testimoniare. Da lì comincia per loro un calvario. Questo docu-film ha l’umiltà di testimoniare per i testimoni».

 

C’è stato un evento scatenante che ha fatto nascere in lei l’idea di realizzare un docu-film sulle vite dei testimoni di giustizia?

«Dovevo presentare una serata, una sorta di festa della legalità, e cercavo un testo da leggere che parlasse di donne e mafia. Ecco che mi sono imbattuta nella storia di Piera Aiello. Da allora non sono più riuscita a smettere di informarmi. Ancora, all’epoca, nemmeno io sapevo la differenza tra testimone e collaboratore di giustizia».

 

Qual è la differenza? 

«Il collaboratore è un pentito. Spesso sono persone che hanno commesso omicidi, anche efferati, che hanno deciso ad un certo punto di rompere con qualcosa di cui hanno fatto parte in prima persona. I testimoni no. Loro hanno fatto quello che si deve fare se assisti a qualcosa di grave o ci sei dentro ma non per tua volontà. Nessuno di loro mi ha mai detto che se potesse tornare indietro non lo rifarebbe, nonostante le immani difficoltà che devono affrontare ogni giorno, nonostante la paura».

 

Tra i protagonisti del docu-film ci sono anche Piera Aiello e Ulisse, entrambi testimoni di giustizia sotto copertura. Quando li ha incontrati, cosa l’ha colpita maggiormente dei loro racconti?

«Nel documentario vorrei parlare anche di altri, ma la storia di Piera è stato il filo conduttore che poi mi ha portata a tutti gli altri. Ulisse è una delle persone più profonde, educate, eleganti e con senso della giustizia che io abbia mai conosciuto. Un uomo che è stato oltraggiato dopo aver testimoniato. È il testimone puro, si può dire: camminando per strada assiste ad un omicidio e decide di testimoniare. Un uomo anche abbandonato dallo Stato, per moltissimi aspetti. L’incontro con lui è stato travolgente quanto quello con Piera e sarà così con tutti, perché la loro è una scelta molto profonda e sanno trasmetterti moltissimo. A volte mi sono chiesta perché voglio raccontare queste storie, ma è impossibile spiegarlo. Queste storie si devono raccontare. Sono state fin troppo tempo nei cassetti».

 

Il promo verrà presentato in anteprima in Sicilia. È una scelta compiuta in base al bisogno di completare il lavoro e di raccogliere altri spunti, altre storie?

«Sì. Finora è stato presentato solo a Firenze, perché fatto in collaborazione con la Regione Toscana. C’è stata una fase in cui ho sentito proprio il bisogno di chiudere questo lavoro dando un senso poetico alle storie. Non sono una giornalista, sono un’attrice e raccontare le storie dei testimoni ha una potenza pazzesca. Ho dovuto studiare, capire, incontrarli, conoscerli, poi mi sono arenata. Come trovare il modo, quale stile usare? Sono storie molto particolari».

 

Sei arrivata fin qui anche per un bisogno di contatto con l’Associazione “Rita Atria”, con cui collabori per la realizzazione del docu-film?

«Il rapporto continuo con Nadia Furnari e Piera Aiello per me è stato fondamentale e lo è tuttora per chiudere questo grande lavoro. Spero che serva a qualcosa, soprattutto a diffondere le loro storie, perché ancora la gente non conosce la figura del testimone di giustizia e la confonde con quella di pentito. È una cosa inaudita per un paese civile».

 

La giustizia italiana e le nostre leggi tutelano davvero chi decide di esporsi in prima persona nella lotta contro la mafia testimoniando?

«Testimoniare non è un atto eroico. I testimoni diventano eroi perché lo Stato non li tutela adeguatamente e perché non si attua la legge. Così, si trovano in una condizione di vita senza senso, senza neanche un minimo riconoscimento per quello che hanno fatto. Eppure la loro è una testimonianza per ognuno di noi: vuol dire che si può fare e che le cose possono cambiare. Non è con l’indifferenza e con l’ignoranza che cambi il mondo».

 

Quindi, condividi la mission dell’Associazione “Rita Atria”?

«Un’associazione come questa è stata fondamentale perché li ha accolti, raccolti, raccontati e da anni continua a battersi per loro».

 

Cosa vieni a cercare in Sicilia per finire il tuo lavoro e cosa speri di trovare?

«Intanto vengo per incontrare loro e per vedere come continuare insieme il lavoro. Inoltre, ho proprio l’urgenza di tornare per girare immagini, per recuperare materiale, per trovare finalmente quel filo rosso che da tanto tempo cercavo e che adesso mi sembra di avere afferrato».

Stefania Tringali

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