Dalle profondità celesti agli abissi marini insondati In Sicilia si studia il naufragio cosmico dei neutrini

La trinacria, amorevolmente ospitata nella
parte centrale del bacino mediterraneo, riveste un ruolo centrale in molteplici attività umane sin dai tempi più remoti. La sua particolare collocazione geografica, il clima abbastanza mite, l’assenza delle correnti e dei moti ondosi tipici delle distese oceaniche, la rendono un appetibile fulcro di investigazione scientifica. Dopo aver conquistato catene montuose e alture vulcaniche in tutto il territorio siculo, i ricercatori hanno rivolto la loro attenzione al mare, utilizzando la sua mole idrica per frenare e rivelare le particelle più misteriose e sfuggenti dell’Universo: i neutrini. Così proprio in Sicilia, a 80 km a Sud Est di Capo Passero, ancorato a una profondità di 3500 metri, è stato installato uno dei più grandi telescopi per neutrini esistenti. Si tratta dell’esperimento KM3NeT, tra quelli che i cittadini potranno conoscere più da vicino all’interno del visitor centre dei Laboratori nazionali del Sud dell’istituto nazionale di Fisica nucleare inaugurati oggi. Uno spazio di accoglienza e divulgazione scientifica che promette di offrire installazioni multimediali e mostre: accogliendo i visitatori all’interno di una stella, spiegando come la Fisica aiuta a ricostruire un’opera d’arte, raccontando il progresso della tecnologia in ambito medico. E anche, per l’appunto, portando i cittadini negli abissi marini con KM3NeT.

Prodotti durante eventi cataclismici nelle regioni dello spazio più profondo, i
neutrini cosmici viaggiano imperturbati fino a noi, dato che una delle loro peculiarità è proprio quella di interagire scarsamente con qualunque cosa incontrino. La loro energia è talmente elevata che gli permette di attraversare interamente il globo terrestre, senza speranza di catturarli. Questa difficoltà, ovviamente, non ha intimorito gli scienziati che hanno colto l’occasione per sviluppare metodi alternativi: è infatti noto che è possibile frenare simili particelle e studiare i prodotti delle loro reazioni con l’ambiente circostante, in modo tale da ricostruire la loro traccia e individuare la direzione da cui provengono. Le informazioni ottenute rispondono a una vasta gamma di quesiti, alcuni dei quali riguardano la localizzazione di sorgenti altamente energetiche e la formulazione di una descrizione più dettagliata dei neutrini (la loro natura è talmente inafferrabile che non permette nemmeno di sapere con precisione quale sia la loro massa).

L’infrastruttura KM3NeT e i progetti di ricerca annessi sono un’iniziativa all’avanguardia, ma gli aspetti logistici collegati costituiscono un’impresa altrettanto ardua. KM3net è infatti costituita da una serie di moduli verticali ancorati al fondale e collegati alla terraferma da veri e propri cavi grandi come pilastri che permettono la trasmissione dei dati ed il monitoraggio della struttura stessa. Possiamo immaginare genericamente delle sfere collegate le une alle altre come colonne, un po’ come le piante marine agganciate al fondale. Le problematiche connesse alla strumentazione destinata alle condizioni estreme dei fondali marini (si pensi ad esempio a correnti e pressione, nonché all’erosione dovuta all’acqua marina) sono per sommi capi le stesse che si presentano quando si vuole lanciare nello spazio un satellite-laboratorio: la fase di modellizzazione e simulazione è cruciale, complessa, articolata, costosa e faticosa dato che non è possibile attivare la strumentazione in loco e vedere se funziona.

Installare i moduli colonnari a 3500 m di profondità e a 80 km dalla costa in un mare pur sempre dominato da forti correnti non è una cosa che si può fare più volte di seguito: se si installa un modulo, bisogna essere certi il più possibile che funzionerà. Perché, in caso contrario, non si può riportare a riva, rintracciare e risolvere il problema, e procedere con una semplice installazione successiva. Una difficoltà che non si esaurisce nemmeno dopo la messa in opera: nel caso di un guasto successivo, infatti, è impossibile per i ricercatori lavorare direttamente sull’infrastruttura, quindi appare chiaro come la manutenzione stessa necessiti di alta tecnologia e continue prestazioni da parte dei diversi gruppi coinvolti. Possiamo dunque dire che i fondali sono difficili da trattare tanto quanto le regioni extra terrestri. Ma questo non scoraggia i ricercatori e, si spera, affascinerà i curiosi.

Vera Pecorino

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