Dalla Festa di Primavera al piccone risanatore

L’articolo “Festa di Primavera ai Benedettini” ha suscitato una vivace polemica. La redazione di Step1 è incorsa in un errore: quello di ospitare un commento, scritto nella forma inusuale di un racconto, senza affiancarlo al classico “rendiconto oggettivo” sull’andamento della manifestazione.

 

Comunque ridiamoci sopra, perché si sa che all’interno dei forum è facile infiammarsi. Nonostante una dietrologia veramente meschina e i dubbi speciosi sull’indipendenza di Step1, mi pare infatti che il tono con cui si è discusso dimostri che nessuno è soddisfatto di litigare. La collaborazione tra Astratti Furori, Step1, Marforio, Radio Zammù, Soqquadro, etc. è un punto di forza al quale sarebbe irragionevole rinunciare. Tutti i progetti più innovativi del nuovo mondo internet ruotano intorno all’evoluzione del concetto di rete: la rete fa la forza, l’unione è la forza, perché non provarci? Perché non coltivare l’ambizione della costruzione di un network informativo multicanale per tutto l’ateneo di Catania? Perché non mantenere il confronto sempre aperto, scandagliando il mondo della creatività giovanile che ricomincia a riaffiorare? E perché non creare un forum dei forum? E proseguire nell’abitudine di scambiarsi gli articoli più interessanti  in perfetta coerenza con lo spirito open content? E inventare un database unico degli eventi culturali cittadini al quale poi ogni testata potrà attingere a piacimento? E lavorare insieme per una radio d’ateneo unitaria fin dall’inizio? Non è un modo intelligente per valorizzare il tempo che molti studenti impegnano a sperimentare le nuove forme di comunicazione e i nuovi linguaggi?

 

Per questa ragione non abbiamo mai considerato Step1 e le altre originali realtà online che animano la comunità studentesca dei Benedettini come giornali di facoltà e “organi ufficiali”, né tanto meno come portavoce di questa o quell’altra cordata accademica. Sarebbe umiliante se noi docenti, per non parlare dei presidi di facoltà, ci proponessimo di condizionare in maniera diretta o indiretta l’autonomia dei siti web basati sulle capacità creative e sul lavoro volontario dei nostri studenti, o se pretendessimo di sacrificare la libertà di espressione all'”orgoglio di facoltà”. Senza autonomia e senza libertà di espressione gli sforzi per sostenere e promuovere questi cantieri di giornalismo assumerebbero tutt’altro significato. Ritengo in verità che il cosiddetto orgoglio di facoltà, che di per sé non avrebbe nulla di male, nelle attuali condizioni è strumentale e nocivo quanto l’Amor di Patria in tempo di guerra (ma questa è una mia idea personale).

 

Se il chiarimento e l’autocritica vi sembrano sufficienti, possiamo tornare a confrontarci senza diffidenze?

 

Inizierò esprimendo un parere sulla festa. Non credo – Enrico Iachello mi scuserà se sono in disaccordo con lui – che la ragione del successo sia da attribuire, in maniera preminente, al tema del rapporto tra università e quartiere. Ritengo invece che quella festa dimostri la validità di un’intuizione: l’dea del “fuori orario”. La partecipazione così ampia ha dimostrato che il vecchio Monastero, sede delle nostre due facoltà, ha straordinarie potenzialità che finora erano state sottovalutate e che è merito degli studenti di Astratti furori, Marforio e Soqquadro avere intuito. Provate (proviamo) a immaginare una “notte bianca” che abbia come epicentro la magia dell’ex Monastero dei Benedettini aperto di notte. Che ricaduta avrebbe una simile proposta sull’intera città? Pensiamoci. O ci pensi ciascuna facoltà per conto proprio (se vi pare conveniente attenersi alla logica autarchica, a mio parere fondamentalmente stupida, che sembra prevalere attualmente). Ma non c’è dubbio che una proposta come la notte bianca sarebbe la naturale prosecuzione delle esperienze compiute per merito dagli studenti di Marforio, Soqquadro e Astratti furori.

 

Senza contare che le iniziative promosse per l’uso “fuori orario” del Monastero avrebbero un valore esemplare anche per le sedi di altre facoltà ubicate nel centro storico: Giurisprudenza a Villa Cerami, Scienze Politiche nei palazzi Raddusa e Reburdone in prossimità della Civita e gli stessi Palazzo centrale e di Sangiuliano su piazza Università e la ex sede dell’Accademia di Belle Arti prospiciente su piazza Manganelli, recentemente acquisita dall’ateneo per uffici: tutti spazi che da ambiti di scambio comunitario fra gli studenti si sono mutati in “non luogo”. Perché è un dato di fatto che il rilancio serale e notturno di alcune sezioni del centro storico catanese è avvenuto indipendentemente dalla presenza dell’università. Direi, anzi, nonostante la presenza di tante sedi universitarie. Appena poche ore dopo la chiusura delle facoltà, quelle stesse aree si ripopolano di un gran flusso di giovani, rispetto al quale la mole degli edifici delle facoltà si staglia come una quinta di cartapesta, muta e priva di vita. Si pensi alla prospettiva dell’ingresso di villa Cerami sull’animatissima via dei Crociferi, oppure alla zona d’ombra del sagrato di S. Nicolò l’Arena che solo sporadicamente riesce a trasformarsi nel palcoscenico di una recita o di un concerto.

 

Credo perciò che il primo aspetto del rapporto tra università e “quartiere” – ma mi pare più appropriato usare il plurale, quartieri – si giochi all’interno dello stesso Monastero. Esso riguarda una gestione dei suoi spazi basata sul superamento della visione prevalentemente “monumentale” che è stata finora dominante e di una maggiore attenzione alla funzione di luogo dello studio e della socialità studentesca, di cui si possa fruire anche “fuori orario”. Ugualmente importanti sarebbero alcune iniziative non sporadiche ma permanenti. Cosa vieta l’apertura domenicale, opportunamente vigilata, del cortile interno, in coincidenza col mercatino dell’antiquariato? Ospitare nel cortile del Monastero una parte delle bancarelle – quelle dei libri, foto e medaglie antiche ad esempio – e consentire ai catanesi una sosta al bar del Monastero sarebbe un modo di “aprirsi al quartiere”, cioè alla città. E cosa impedisce di destinare la ex Casa Nicolina a spazio di servizio per un piccolo bar di gelati e granite, con servizio all’aperto nel giardino di via Biblioteca? E che si aspetta ad affidare a una cooperativa di neolaureati e studenti l’organizzazione delle visite guidate e la gestione del complesso museale delle ex cucine?

 

Perciò ben vengano le feste. Sforziamoci però di farne un bilancio senza trionfalismi e demagogia. Tra i vari commenti che ho letto nei forum, uno dei più interessanti mi è parso quello di uno studente (Michele Spalletta) che ha scritto: “L’ex Monastero dei Benedettini, fino a questo momento, è stato un’isola all’interno della città e continuerà a esserlo pur dopo questa esperienza. La stragrande maggioranza della gente presente alla manifestazione faceva parte del mondo universitario, ben pochi erano i ‘residenti’ e, anche questi, dopo la festa, dubito che abbiano visto cambiare qualcosa nel modo di vivere il quartiere con dentro quest’isola. Creare un rapporto con il quartiere, facilitare la commistione tra complesso universitario e cittadini, credo debba far parte di un percorso che punti a un impatto serio e ragionato sul tessuto sociale e culturale. All’interno di questo percorso vanno inserite manifestazioni ‘spettacolari’ come le Feste di Primavera. Ma, personalmente, credo che non si possa avere la presunzione di dire ‘apriamo le porte al quartiere’ soltanto così. Diversamente, la vedo più come una forma di spettacolarizzazione e snobismo retrò che, certamente, non può avere la pretesa di raccogliere i pur onorevoli frutti che si prefigge”.

 

E allora che fare?  C’è una questione che sta lì, sotto gli occhi di tutti, e che nessuno solleva: lo scheletro semivuoto dell’ex ospedale Santa Marta, una delle più orribili superfetazioni degli anni Sessanta. Le facoltà che hanno sede nel Monastero dei Benedettini potrebbero assumere l’iniziativa di reclamare la sua immediata demolizione (prevista nello schema di piano regolatore dell’architetto Cervellati). Demolendo la parte “moderna” dell’ospedale S. Marta in via Sangiuliano si restituirebbe all’area adiacente al Monastero una piazza-giardino in continuità col giardino di via Biblioteca, si ridarebbe dignità urbana al “quartiere”, si ravviverebbero gli esercizi commerciali collegati alla presenza dell’università, si porrebbero (forse) i presupposti per rendere meno desolata e più sicura l’area che circonda il Monastero.

 

Proviamo a ragionare sull’atto del demolire come strumento del riscatto urbanistico e civile di intere aree degradate del centro storico della nostra città, come “risarcimento” rispetto a precedenti devastazioni, come momento propedeutico per l’attuazione di un nuovo disegno, come ricostruzione del senso di un luogo attraverso la parziale “liberazione” dagli elementi che vi si sono incrostati sopra (attingo queste idee da un bel libro sul quale varrebbe la pena discutere: Il senso del vuoto. Demolizioni nella città contemporanea, a cura di Fausto Carmelo Nigrelli).

 

Quando verrà dismesso l’ospedale Vittorio Emanuele, si potranno fare discorsi più ambizioni per spezzare il carattere di “isola” del complesso dei Benedettini. Ma intanto la demolizione del Santa Marta è già un intervento praticabile. Dire con decisione – “si metta immediatamente mano al piccone risanatore, demolite subito quell’obbrobrio, rendiamo una nuova piazza al quartiere” – sarebbe un gran merito degli studenti di Lettere e Lingue.

Luciano Granozzi

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