Una «chirurgica scomposizione». Secondo la Corte di Cassazione il processo all’ex senatore Antonio D’Alì per concorso esterno all’associazione mafiosa, è da rifare: i vari episodi contestati vanno riletti in un un’unica prospettiva. L‘ex parlamentare di Forza Italia, era stato assolto dalla Corte d’appello del capoluogo siciliano per le imputazioni relative ai fatti successivi al 1994, i giudici avevano invece dichiarato prescritte le accuse inerenti al periodo precedente, in cui però, scrive il giudice, «è stato provato che D’Alì abbia contribuito, con coscienza e volontà, al rafforzamento di Cosa Nostra».
«Una valutazione parcellizzata di ciascuna vicenda» nei rapporti con Cosa nostra sia prima che dopo il 1994. È così che la Cassazione ha valutato la sentenza della Corte territoriale con «profili di illogicità rilevanti in merito alla suddivisione netta in due periodi». In sostanza, la corte d’Appello non avrebbe tenuto in considerazione, nella valutazione delle vicende successive al 10 gennaio 1994, quanto era già stato accertato nel periodo precedente, ovvero che D’Alì fosse stato un «concorrente esterno di Cosa nostra vicino a Matteo Messina Denaro e che avesse svolto attività a beneficio del massimo esponente mafioso del tempo, Salvatore Riina». L’attività cui si fa riferimento è l’intestazione fittizia di un terreno in contrada Zangara in realtà trasferito, molto tempo prima, ad Alfonso Passanante – esponente di spicco di Cosa nostra – che non poteva figurare come intestatario per timore di eventuali confische. L’ex sottosegretario all’Interno si era prestato a mantenere la titolarità formale e a formalizzare la compravendita nei confronti di un prestanome con utilità della cosca anche in termini di riciclaggio di denaro.
«Si dubita della logicità del ragionamento della Corte palermitana – si legge nelle motivazioni – che non prende una posizione netta sulla rilevanza al supporto elettorale fornito da Cosa nostra a D’Alì non solo nel 1994 ma anche nel 2001». Per quanto riguarda le consultazioni della metà degli anni Novanta, la sentenza d’appello fa riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che confermano «la piena disponibilità di D’Alì nei confronti di massimi esponenti di Cosa nostra trapanese che gli consentì di ottenere l’appoggio elettorale quando venne eletto senatore della Repubblica». Nella sentenza, però, non si fa cenno alla vicinanza dell’ex sottosegretario a esponenti mafiosi nella fase successiva. Che sarebbe testimoniata, invece, dal rinnovato appoggio elettorale del 2001 per le elezioni politiche e regionali «che vedevano sostenuto dai mafiosi il candidato dell’imputato, l’onorevole Giuseppe Maurici». Un sostegno elettorale ritenuto utile da Cosa nostra tanto da spendersi per una mediazione tra D’Alì e Nino Croce, a capo di un’altra componente di Forza Italia con cui si era creata una frattura che avrebbe potuto danneggiare gli interessi dell’associazione mafiosa.
«Una considerazione unitaria e organica – sottolinea adesso il collegio – avrebbe reso necessario che ciascuno degli episodi fosse interpretato contestualizzandolo in un periodo in cui D’Alì stava godendo dei risultati del supporto elettorale di Cosa nostra del 1994 e si stava guadagnando il successivo, poi ottenuto perché egli garantiva un diretto appoggio nelle attività di loro interesse».
Altre «crepe insuperabili» la corte di Cassazione le ha colte nella questione della società confiscata a Vincenzo Virga, la Calcestruzzi Ericina e del trasferimento prefetto Fulvio Sodano. Come emerge da diverse intercettazioni, Sodano era malvisto dagli appartenenti all’associazione mafiosa. In un’occasione viene rimproverato da D’Alì, adirato per non essere stato invitato a una riunione sulle aziende sequestrate alla quale, ricordano i giudici, non aveva titolo per partecipare. È in quella occasione che l’ex senatore azzurro avrebbe ricordato al prefetto che era in suo potere decidere su un suo eventuale trasferimento, poi effettivamente avvenuto. La corte d’Appello, nella sentenza di secondo grado, attribuisce questo comportamento alla possibilità che l’imputato «avesse a cuore la libera concorrenza». Anche in questo caso, però, per la Cassazione «si tratta di un’affermazione di cui non si coglie la logica, tenuto conto che non rientra nei compiti di un sottosegretario garantire la parità tra le imprese del territorio».
Infine, fra gli aspetti da approfondire meglio c’è anche la questione del trasferimento effettivo di Sodano da Trapani ad Agrigento. Lo stesso prefetto dichiarò che era stato l’allora presidente della Regione Salvatore Cuffaro a dirgli che la decisione era stata presa su indicazione di D’Alì. Versione poi smentita dall’ex governatore davanti ai giudici. Ebbene, secondo la Cassazione è illogico ritenere maggiormente affidabile la smentita di Cuffaro, soggetto condannato per favoreggiamento aggravato all’organizzazione mafiosa. Sempre a proposito della stessa vicenda, la Suprema Corte interviene sulla opposte ricostruzioni fatte dall’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu e dal suo capo di gabinetto Carlo Mosca. Quest’ultimo riferì delle ingerenze del sottosegretario D’Alì nel trasferimento di Sodano. Pisanu invece parò solo di motivi amministrativi. Per la Cassazione va considerato il fatto che se Pisanu avesse ammesso pressioni, avrebbe implicitamente ammesso «di essersi prestato a un trasferimento strumentale agli interessi di un politico accusato di concorso esterno in associazione mafiosa».
La replica degli avvocati di D’Alì, Gino Bosco e Stefano Pellegrino: «Non possiamo che prendere atto, con disappunto, delle infelici motivazioni espresse dalla Cassazione che, come noto, dovrebbe solamente esaminare profili di legittimità della sentenza di appello impugnata dal procuratore generale. Ci pare in verità che la Corte di Cassazione si sia spinta un po’ oltre, con alcune improprie valutazioni di merito che risultano ovviamente parziali, dato che la realtà processuale oggetto di giudizio della Suprema Corte non tiene conto, perché non poteva tenerne, di separate vicende processuali, per le quali si è creato di recente anche un giudicato definitivo, che ancora una volta hanno demolito l’impianto accusatorio del teste Birrittella. Ci riferiamo ad esempio al processo Mannina basato sulle uniche accuse del Birrittella di voler acquistare la Calcestruzzi Ericina per conto delle cosche trapanesi. – spiegano – Ebbene Mannina è stato assolto in Cassazione ed è stata annullata interamente la misura di prevenzione patrimoniale. Tuttavia, almeno, la Corte ha messo dei paletti alla eventuale nuova attività istruttoria da compiersi in sede di appello, – proseguono – dichiarando inammissibili le richieste di integrazioni istruttorie avanzate dal procuratore generale al riguardo del teste Treppiedi e della vicenda di Linares, articolate nel ricorso per Cassazione dello stesso procuratore generale».
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