«La fatica è stata immane, però le persone che hanno partecipato hanno ritrovato il sorriso, una spinta alla vinta. Uno dei ragazzi ha saputo di essere stato visto anche dai genitori che sono in Africa e che hanno visto con i loro occhi cosa sta facendo qui: non possiamo capire fino in fondo cosa significhi tutto questo per loro». E loro sono i Baraonda, una compagnia teatrale palermitana di migranti, che poco tempo fa si è esibita sul palco di Italia’s Got Talent. Una performance breve ma piena di intensità, cento secondi di corpi, volti, espressioni che hanno reso concreto un dramma che ancora oggi percepiamo lontano da noi. A guidarli è lo psicologo e psicoterapeuta Martino Lo Cascio, regista e direttore artistico della compagnia, e l’associazione Nottedoro, che ne promuove e stimola le attività, oltre ad averne suggellato la fondazione.
Dopo l’esibizione i ragazzi hanno chiesto di non essere giudicati, non erano lì per partecipare alla gara. «A noi interessava avere un ritorno, una visibilità diversa e una possibilità di divulgazione rispetto a quello che facciamo qui a Palermo – spiega il regista – Una Sicilia non solo legata a sbarchi e morti, hotspot e centri assistenza, ma terra piena di luoghi dove si fanno esperienze di accoglienza e integrazione innovative e inusuali». Ma per capire cosa sia Baraonda, bisogna partire dall’inizio della storia. Da uno psicologo attento al sociale che nel tempo libero si diletta nei panni del regista e che decide di realizzare un laboratorio teatrale per migranti. «Tutto nasce tre-quattro anni fa – racconta Lo Cascio – Ho iniziato quasi da freelance, da solo, appoggiandomi al Santa Chiara a Ballarò».
Per coinvolgere i ragazzi crea un volantino per sponsorizzare il laboratorio, lo lascia nei luoghi più frequentati in città dai migranti. In breve si raduna un gruppetto di giovani e di adulti con i quali le attività hanno preso il via. Si incontrano un paio di volte a settimana per un’ora e mezza circa. Malgrado la brevità del corso, però, dovuta agli impegni di tutti, migranti compresi alle prese con scuola, studio e lavoro, i ragazzi stessi chiedono a gran voce di esibirsi in una performance finale. «Così ho scritto una cosa breve di 45 minuti e il suo titolo era proprio Baraonda, un nome che mi piaceva molto perché sintetizzava moltissime cose – spiega – ha a che fare con la confusione, ma nello stesso tempo anche con un momento di grande creatività. Da un altro punto di vista invece è la fusione di due parole che in qualche modo per me purtroppo rappresentano molte delle vicissitudini di quei migranti che non riescono neanche ad arrivare».
«Questo lavoro mi è sembrato di per sé utile, quindi ho deciso di continuare ma in maniera più organizzata», continua Lo Cascio. Nasce così un secondo laboratorio, voluto e promosso soprattutto dall’associazione Nottedoro. Nasce, quindi, anche un secondo spettacolo, Vade retro – la riscossa dei poveri diavoli, che lega la storia di San Benedetto il moro, copatrono di Palermo chiamato così perché nero e di origine africana, e la storia dei migranti che arrivano sulle nostre coste. Ed è un piccolo promo di questo lavoro che convince gli autori del programma televisivo. «Il mio tipo di teatro è molto legato alle espressioni metaforiche più che a un linguaggio diretto e quindi ho mescolato queste due storie in quest’ottica, ed è venuta fuori una cosa superiore alle aspettative, chi l’ha visto è rimasto molto colpito – dice ancora – Il mio teatro, quasi per necessità, si basa quasi tutto su un lavoro relativo ai corpi, la parola è un po’ messa in secondo piano, ma non del tutto eliminata».
A stimolare continuamente il regista della compagnia è proprio l’impatto che questo lavoro ha sui ragazzi: «L’esperienza teatrale che stiamo facendo ha una valenza di crescita sociale, individuale e collettiva molto forte – spiega – Quasi tutte le persone che hanno partecipato ai laboratori e poi alle performance finali hanno avuto dei cambiamenti radicali nella loro esistenza, perché gli ha permesso intanto di esercitarsi meglio sull’italiano praticandolo veramente, al di là dei libri». A beneficiarne, però, è stata soprattutto l’autostima: «Molti di loro, quando arrivano qui, devono fronteggiare molte difficoltà e la loro stessa identità viene spesso minacciata in vari modi. In questo modo trovano un set e un gruppo che permette loro di recuperare questa autostima e di far emergere dei talenti che neanche loro alle volte conoscevano – prosegue – E poi c’è anche una dimensione di crescita collettiva e di nuova fiducia nei confronti del paese che li ospita, delle istituzioni e delle persone che danno loro un’occasione per diventare finalmente visibili in senso positivo e non legandoli a una qualche propaganda politica negativa».
Vengono finalmente visti come persone, al di fuori di ogni categoria o etichetta. «Diventano persone con un talento, che hanno qualcosa da dire, che trovano la forza e il coraggio di riaprirsi a un sogno che nel frattempo sembrava essersi inabissato – conclude – Ci sono delle vere e proprie virtù nel teatro che lo rendono un mezzo interessante nel percorso sociale». L’attività di Lo Cascio quindi non si ferma, anzi. L’ultima tappa di questo lavoro è il progetto React, un laboratorio teatrale per richiedenti asilo in corso in questi mesi, realizzato con il Centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, che culminerà con uno spettacolo finale il 22 giugno.
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