«Un museo del fascismo non può essere mai un’operazione neutra, né deve essere intesa come forma di riconciliazione. Sono sciocchezze, il popolo italiano non ha bisogno di riconciliarsi con nessuno, fortunatamente viviamo in pace da 70 anni». Salvatore Lupo, lo storico siciliano che più si è occupato del fascismo nell’isola, osserva con qualche preoccupazione il progetto che prende corpo a Predappio, il paese di Benito Mussolini che conserva le spoglie del dittatore. Il sindaco del Pd, Giorgio Frassineti, vuole realizzare un museo da ospitare nell’ex Casa del fascio, poco lontano dall’edificio dove è nato Mussolini e dal cimitero dove riposa. La struttura ospiterà un centro di documentazione, mostre, l’esposizione permanente, un’area ristoro. Il tutto per un costo di cinque milioni di euro, di cui circa due verranno finanziati direttamente dal governo Renzi che ha sposato il progetto. A sostenerlo sono anche 50 studiosi al di sopra di ogni sospetto di revisionismo, capeggiati dallo storico Marcello Flores.
«Le intenzioni sono sicuramente buone, ma non so quanto questo strumento sia adeguato alle buone intenzioni – commenta Lupo -. Il fascismo è il periodo storico studiato meglio a livello italiano, e molto approfondito anche su scala mondiale. Non serve un segnale che sia un liberi tutti, la storiografia ha fatto i conti alla grande col fascismo. Ma un museo è cosa diversa da un libro di storia, nei libri ognuno è libero di scrivere quello che vuole. Invece i musei sono stati spesso intesi come celebrativi». Lo storico siciliano cita alcuni esempi. «Abbiamo realizzato musei della guerra che si sono ridotti a un’esaltazione della guerra e musei della mafia controproducenti per l’antimafia. Non la vedo semplice».
A complicare le cose è sicuramente il luogo scelto per ospitare il progetto. Nel documento di presentazione, i promotori esplicitano chiaramente che l’obiettivo è sottrarre Predappio alle celebrazioni dei nostalgici del fascismo che hanno fatto del paesino emiliano un luogo di pellegrinaggio. «Da 60 anni – sottolinea Lupo – si è sviluppato un culto del duce che non è semplice smontare». Proprio sulla sede si concentrano le principali critiche di chi è contrario al progetto. «Non c’è stato un dibattito pubblico – denuncia Ernesto De Cristofaro, docente di Storia del diritto all’università di Catania – la lunga fase di gestazione è stata portata avanti in modo sotterraneo, mentre sarebbe servita un’elaborazione più condivisa. Perché, ad esempio, non realizzare il museo a Roma o a Milano? Luoghi che hanno sicuramente più a che fare con la storia del fascismo». Secondo il professore «disattivare il nucleo simbolico che si è venuto a creare a Predappio non è semplice». Anzi, il rischio è che alla fine vadano a visitare il museo «gli stessi che hanno fatto di Predappio una mecca dei nostalgici di Mussolini, sacralizzando ulteriormente quel posto».
Un fenomeno a cui la Sicilia non si sottrae. Nell’Isola il rischio revisionismo è rafforzato dalla mancanza di una resistenza dopo il 1943, a differenza di quanto successo nel Cento-Nord. «Eppure – spiega lo storico Lupo – a quella data il fascismo era molto impopolare in Sicilia, a causa della fame, della guerra persa, dalle cialtronate. In quegli anni la differenza tra Nord e Sud si è allargata come mai nella storia italiana. Prima dello sbarco degli alleati, il regime viveva una castrofica crisi di impopolarità. Ma la memoria nel tempo si è riassestata sul ventennio precedente ed è rimasta l’idea positiva di un’Italia modernizzata, delle colonie marine per i ragazzi e altro. In realtà si tratta di fenomeni che si sarebbero verificati anche senza il fascismo, come è successo altrove». Altro «falso mito» è quello della sconfitta della mafia. «A metà degli anni ’20 – analizza Lupo – il fascismo fece una grande operazione antimafia, giocandosela benissimo a livello propagandistico, tanto che ne parlò pure il New York Times. Ci furono territori in cui la repressione fu più drastica, come le Madonie, altri in cui fu morbida, soprattutto nel Palermitano e nel Trapanese. La verità è che la mafia uscì forte dalla guerra perché non era stata battuta. A confermarlo – conclude lo storico – sono alcuni documenti della polizia del 1935, rimasti segreti, in cui si parla di una mafia più forte rispetto all’operazione degli anni venti condotta dal prefetto Mori».
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