Un insediamento indigeno antichissimo, risalente all’età del bronzo, poi colonizzato dai greci e abbandonato dopo la conquista da parte dei Cartaginesi della Sicilia occidentale. È quanto sta emergendo a Caltabellotta, località a pochi chilometri da Sciacca, dove dal 2011 l’università di Catania svolge, in convenzione con la soprintendenza di Agrigento, degli scavi archeologici condotti dalla professoressa Rosalba Panvini, docente di Metodologie della ricerca archeologica di Unict, e da Dario Palermo, docente di Archeologia della Sicilia e della Magna Grecia nello stesso ateneo.
Dallo scavo continuano ad emergere resti archeologici importanti per lo studio delle antiche popolazioni indigene siciliane, di cui Caltabellotta sta restituendo numerose testimonianze. «Lo scavo che attualmente stiamo conducendo – spiega la professoressa Panvini – riguarda un centro indigeno ellenizzato, vale a dire un abitato occupato da comunità indigene che, in un secondo momento venne colonizzato dai Greci dai quali vengono attinti modelli e tipologie culturali. Nel sito vi sono tracce di frequentazione a partire dall’età del bronzo recente (Facies di Pantalica), come lasciano ipotizzare i resti di livelli di uso e dei relativi materiali ceramici; all’età del ferro (VIII secolo a.C.) risalgono i resti di un villaggio capannicolo riferibile a comunità sicane in cui sono stati rinvenuti manufatti attribuibili alla facies culturale di Sant’Angelo Muxaro».
Dallo scavo stanno riemergendo anche reperti greci, che dimostrano quanto l’intera area fosse importante anticamente, come sottolinea Panvini: «Durante il VI secolo a.C. il centro fu occupato dai coloni greci, forse di Selinunte, e frequentato fino al 409 a.C., anno in cui si data il definitivo abbandono dell’abitato a causa della conquista cartaginese. Ad oggi, dell’antico insediamento greco rimangono i resti delle abitazioni, delle fortificazioni e un santuario che sembrerebbe confermare le ragguardevoli dimensioni raggiunte dal centro abitato». La docente spiega poi come nel IV secolo il centro venne progressivamente abbandonato e la popolazione si trasferì più a valle, nella zona sulla quale oggi insiste il paese di Sant’Anna. «A questa fase – continua – sono riferibili i resti di più abitati, cronologicamente distribuiti tra il III secolo a.C. e l’età medievale. Soltanto nel XIV secolo Caltabellotta torna ad essere frequentata e a questa fase sono riconducibili i resti delle abitazioni scavate nella roccia della zona attorno alla chiesa madre ed anche l’impianto urbanistico, caratterizzato da vicoli molto stretti ed in forte pendenza, che venne poi ricalcato dall’impianto del moderno paese».
Il lavoro scientifico da svolgere è ancora molto, ad agosto si tornerà a scavare nel sito archeologico, mentre bisogna provvedere alla realizzazione della pubblicazione dello scavo. Sono decine gli studenti che negli anni hanno lavorato volontariamente allo scavo, come racconta un ex universitario, oggi archeologo, Antonino Barbera: «La mia prima esperienza fu proprio a Caltabellotta. Motivato dal fascino di un sito meraviglioso, grazie alla sapiente guida della professoressa Panvini, ho imparato molto mettendo le mani nella terra e sperimentando in prima persona ciò che fino a quel momento avevo solo letto nei libri. Ecco perché, ancora oggi, per noi è importante che chiunque venga a scavare non sia lasciato solo e venga guidato passo per passo in questa esperienza».
Il futuro del sito a fine scavi, è però avvolto da numerose incognite. «La pubblica apertura è senz’altro una prospettiva su cui lavorare – spiega la dottoressa Caterina Greco della soprintendenza di Agrigento – ma non sarà possibile realizzarla senza il concorso attivo del Comune, sia per il personale di custodia sia per la manutenzione dell’area. Purtroppo la soprintendenza non dispone di risorse umane né finanziarie per gestire in proprio altri siti archeologici oltre a quelli già aperti al pubblico».
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