«C’è stato un momento in cui ci eravamo scoraggiati». Ammette lo sconforto il presidente della fondazione Ebbene Edoardo Barbarossa, «ma non ci siamo mai rassegnati». E la resistenza ha pagato. L’immobile sulla circonvallazione etnea (in zona Nesima), al civico 17 di via Eredia, poco più di sette mesi fa, era stato prima occupato abusivamente e poi vandalizzato. Sembrava destinato a trasformarsi in un luogo abbandonato con danni per un totale di circa 300mila euro. «Ma tutto è bene quel che finisce bene», commenta a MeridioNews Barbarossa. La struttura su due piani – con sette camere molto grandi (con bagni e angolo cottura) sopra e una enorme sala sotto – oggi è un centro Sai (Sistema di accoglienza integrato), quello che in passato avremmo chiamato Sprar, e accoglie giovani migranti neo-maggiorenni.
«Non ho mai visto la struttura prima che venisse sistemata – dice Giuliana Ecora, la responsabile dei servizi immigrazione della cooperativa sociale Team che gestisce il centro insieme al consorzio Sol.co – e vedendola così viva adesso, mi pare impossibile immaginarla in quel modo». Tra sanitari smontati, ascensore divelto, porte scardinate, fili delle rete elettrica tagliati, l’immobile – che in passato è stato sede di una municipalità e casa di riposo per anziani – era inutilizzabile. Al punto che la fondazione, dopo essersi aggiudicata il bando per l’assegnazione dell’Istituto autonomo delle case popolari (Iacp) di Catania, aveva chiesto che venisse consegnato solo quando fruibile. «In autunno, finalmente, dallo Iacp hanno deciso di sistemarlo. Dopo una prima consegna provvisoria – spiega il presidente di Ebbene – siamo stati noi a decidere di mettere subito un custode, nonostante i locali non fossero ancora pronti, per evitare che venisse di nuovo occupato o vandalizzato».
Pensato inizialmente per ospitare famiglie in difficoltà, si è trasformato in centro di seconda accoglienza per migranti. «C’erano nuclei che non potevano aspettare e quindi – sottolinea Barbarossa – a loro abbiamo provveduto affittando altri locali». Così, dallo scorso 14 gennaio, la struttura è diventata la casa per 24 ragazzi di poco più di 18 anni che arrivano da Senegal, Mali, Pakistan, Bangladesh, Etiopia, Nigeria e Liberia. «Convivono bene tra loro e anche asiatici e africani vanno d’accordo – afferma Ecora – Soprattutto fanno molto gruppo». Fondamentale in un progetto che punta tutto sull’integrazione che passa per progetti individualizzati per creare il percorso (che può durare da sei mesi a un anno) più idoneo per ogni ospite.
«C’è un ragazzo che arriva dalla Liberia – racconta la responsabile – che si è iscritto all’Università in Scienze politiche, alcuni studiano per prepararsi al diploma, altri si cimentano con la lingua italiana e poi c’è chi si dedica a tirocini per inserirsi nel mondo del lavoro». Tutto mira al raggiungimento di una piena autonomia. Progetti di vita che prendono forma in un bene che rischiava di finire tra incuria e degrado. «Le sale comuni adesso sono diventate aule studio, mentre il terrazzo e il giardino – conclude Ecora – i ragazzi li usano per i loro momenti di svago e socialità (Covid permettendo) tra coltivazione dell’orto e partite a pallone».
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