Cuba-Tatuare la storia, alla mostra performance estreme Parlare con il corpo del legame con la propria terra

I tatuaggi sono segni che rimangono per sempre lì, indelebili sulla nostra pelle, a raccontare una storia o a ricordarci un momento. Parlare attraverso il corpo, proprio come fa chi si tatua, è anche l’obiettivo di Cuba. Tatuare la storia, mostra inaugurata allo ZAC, presso i Cantieri Culturali alla Zisa e curata da Diego Sileo e Giacomo Zara. L’esposizione, che i palermitani potranno visitare fino al 18 dicembre, è stata organizzata da ruber.contemporanea in collaborazione con l’accademia di belle arti di Palermo allo scopo di portare nel capoluogo siciliano le opere più rappresentative di 31 artisti cubani, attivi dalla fine degli anni Settanta in poi.

Questa, però, non è una mostra qualunque e lo dimostra il fatto che sia stata inaugurata da una delle performance estreme di Carlos Martiel. Il giovane artista cubano, infatti, si è presentato completamente nudo di fronte ai visitatori accorsi allo ZAC per poi distendersi a terra e farsi cospargere di diserbante. Questa esibizione, denominata Plaga, è in linea con tutte le altre performance di denuncia dell’artista che, come spiegato da una delle guide del museo, richiedono davvero una grande sopportazione fisica del dolore, ma, al tempo stesso, vogliono presentarsi come un vero e proprio inno alla libertà.

Non sono da meno le esposizioni degli altri artisti che hanno voluto rappresentare sotto forma di arte il legame con la propria terra, una sorta di eterno odi et amo, quella voglia di fuggire dalla dimensione storico-politica opprimente della Cuba nell’ultimo cinquantennio e, contemporaneamente, quella presenza ingombrante delle proprie radici, della propria identità, cui risulta impossibile sottrarsi. Tutto questo si avverte chiaramente nei lavori di Susana Pilar, della quale si può visionare anche il video della performance realizzata al PAC di Milano: la donna si fa stirare i capelli con dei carboni ardenti, quasi a voler rinunciare ai suoi tratti afrocubani, salvo poi versarsi addosso un barile pieno di acqua fredda per far tornare i capelli al loro stato originale.

D’impatto anche la video-installazione La culpa di Reiner Nande che, alludendo alla massima cristiana del lavarsi le mani, fa riflettere sulle responsabilità politiche e personali spesso disattese. La proiezione video delle mani che vengono continuamente insaponate all’interno di un lavandino diventa quindi immagine di quell’incapacità di risoluzione di fronte al susseguirsi degli eventi.

Camminando lungo la sala dello ZAC, poi, ci si può imbattere anche nello specchio blu di Felix Gonzales Torres e nelle caratteristiche opere di Ana Mendieta, due dei più famosi artisti cubani del XX secolo, o, ancora, nel muro dipinto di rosso con appoggiato del pane realizzato da Tony Labat, che ha voluto così rendere onore alla citazione marxista: «il comunismo è pane». Da segnalare, infine, anche le opere di Grethell Rasúa, nelle cui teche sono esposti oggetti da lei assemblati con liquidi e scarti corporei: da orecchini costruiti con dei capelli a dei disegni realizzati con sangue mestruale. Rasúa gioca con le contrapposizioni tra buono e cattivo, giusto e sbagliato, a sottolineare le condizioni di miseria e precarietà di Cuba, dove anche lo scarto si trasforma in qualcosa di utile, persino in accessorio di bellezza. La mostra è visitabile da martedì a domenica, dalle 10 fino alle 18

Claudia Argento

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